i X tesi



Teatro E Gioco: tra teoria e prassi teatrale  Intro | Cap. I | Cap. II | Cap. III | App. | Biblio

APPENDICE 1 & 2

APPENDICE 1

1. PASSEGGIANDO IN SOLITUDINE NEL SILENZIO E NELL’OSCURITÀ
    Intervista a Enrique Vargas, a cura di M. Surianello
2. IL TEATRO È UN ALAMBICCO
    Intervista a Enrique Vargas, a cura di F. Gasparini
3. VERSO UNA POETICA DE LOS SENTIDOS
    Intervista a Enrique Vargas, a cura di M. Tomasi

APPENDICE 2

1. UN INCONTRO POSSIBILE. TRA TEATRO E GIOCO DI RUOLO
    Intervista a Vania Castelfranchi, a cura di M. Tomasi
2. YGRAMUL
    Intervista al gruppo Ygramul, a cura di M. Andreoli

      - Note -

APPENDICE 1

Fonti che hanno contribuito allo sviluppo di questa tesi sono le interviste ai registi Enrique Vargas e Vania Castelfranchi. In questa Appendice 1 ne troviamo tre rilasciate da Vargas rispettivamente a M. Surianello, a F. Gasparini e a M. Tomasi.

1.    PASSEGGIANDO IN SOLITUDINE NEL SILENZIO E NELL’OSCURITÀ [253] .

Intervista a Enrique Vargas, nei camerini del Teatro Ateneo di Roma. Davanti a una tazza di te verde, il drammaturgo e regista colombiano, ospite de “Le vie dei festival”, regala frammenti della sua vita e della sua arte.

Roma. Passato, presente e futuro non esistono. Per Enrique Vargas, che ci accoglie nel suo camerino offrendoci una tazza di te verde, sono solo una comoda invenzione. E uscendo dalla chiacchierata con il drammaturgo e regista colombiano – in questi giorni al Teatro Ateneo di Roma ospite de “Le vie dei festival” – si ha una sensazione di perdita della cognizione del tempo.

Pacato e sorridente, con una disponibilità - a raccontare e ascoltare - rara da incontrare tra le persone non solo di teatro, Vargas ci regala oltre un’ora del suo tempo, mentre accanto, per decine di spettatori che da soli (uno ogni quattro minuti) entrano nel misterioso percorso, si ripete Oracoli. Lo spettacolo che ha ideato e diretto, con una compagnia di attori colombiani e italiani, come parte finale della trilogia “Sotto il segno del labirinto”, avviata nel suo Paese e proseguita poi a Modena con Emilia Romagna Teatro.

Ma cos’è Oracoli?

È la storia di una domanda che lo spettatore-viaggiatore si pone. Il sottotitolo infatti è: “Il suono dell’acqua dice quello che pensi”.

Questo viaggio presuppone una partecipazione “totale”, un coinvolgimento fisico ed emotivo dello spettatore, che non è più quello che entra e si siede, ma deve compiere delle azioni.

Sì, è come andare in un parco o in un bosco. È una passeggiata, basata su tre criteri: solitudine, silenzio e oscurità. Quando abbiamo iniziato a lavorare su quest’opera, avevo pensato di farla per un solo spettatore. Sedici attori per un solo spettatore. Ma il produttore prima del debutto ci ha lasciati. Abbiamo avuto molti problemi prima di arrivare a presentarla. L’idea è di fare uno spettacolo con tutti gli abitanti della terra che vadano in scena per una sola persona.

Questa persona reggerebbe a una tale emozione? Cosa cambia in un attore quando recita per un solo spettatore?

Ovviamente è una tendenza, un’utopia. Comunque, per fare uno spettacolo per una sola persona è necessaria una grande umiltà.

Nei tuoi spettacoli torna la memoria di una cultura contadina, delle cose semplici, anche nell’ultimo Memorie del vino.

Sono nato a Manizales dove si lavorava la terra. Quando ero piccolo, avevo tre anni, la sera ascoltavo di nascosto i racconti, non potevo stare al centro del circolo, quindi ascoltavo e vedevo solo le ombre sulla parete. Questa esperienza mi ha marcato. Per me è importante l’esperienza, poter sperimentare qualcosa, contro la tirannia dell’occhio. Guardare va bene, ma si deve anche odorare, il corpo deve essere presente, perché ha la sua memoria. In Oracoli il viaggiatore incontra un chicco di grano, lo macina, fa la farina e poi la impasta.

Da dove nasce questa ricerca?

Oracoli è l’ultima parte della trilogia “Sotto il segno del labirinto”, nel primo spettacolo Il filo d’Arianna il tema generale era la memoria. Ripensare a quello che è successo, la memoria primigenia, quella del corpo. Poi, lavorando su Oracoli ho scoperto che le categorie passato, presente e futuro non esistono, come non esistono i cinque sensi. Noi abbiamo un solo senso ma con tante finestre. Il senso è la presenza, con diversi sguardi: passato, presente e futuro sono un solo momento. Per avere una premonizione del futuro ho bisogno di una memoria del passato. Per sapere dove sono ho bisogno di sapere da dove vengo e quindi posso intuire dove andrò. La relazione tra memoria del passato e “memoria del futuro” allora è chiara. Quindi non è vero che prima ho lavorato sulla memoria primigenia e ora sulla premonizione, è solamente una trappola grammaticale, semantica. Il tempo ha tante sfaccettature. Con la fisica quantica, ma principalmente con la poesia, è possibile pensare ad una relazione tra tempo e spazio che non sia lineare, così fatta per il consumismo, per l’industria. Quando la gente entra in Oracoli non sa più quanto tempo è trascorso, potrebbero essere passati solo dieci minuti. E quando si tenta di ricapitolare quello che è accaduto non è chiaro cosa è stato prima e cosa dopo.

Le cose che dici alimentano la curiosità. Lo spettacolo si deve vedere.

O magari odorare.

Insomma si deve entrare. Lasciamo quindi che ciascuno faccia il proprio percorso e intanto raccontaci cosa stai facendo adesso. Vivi ancora a Madrid?

Il lavoro di ricerca sulla memoria del vino (lo spettacolo ha debuttato quest’anno, ndr) è stato fatto a Modena. Allo stesso tempo abbiamo approfondito il lavoro di Oracoli con un laboratorio di ricerca. Così, negli ultimi due anni sono stato fisso a Modena.

Oracoli  sta girando e ha toccato molte città europee. È complicato allestirlo? Qui all’Ateneo avete lavorato venti giorni prima di andare in scena.

Lo spettacolo cambia in ogni città. Perché se si lavora sulla memoria del corpo è necessario anche lavorare sulla memoria del luogo. Questa è una Università e per noi è molto importante. A Rimini, il posto era un albergo degli anni Cinquanta. Un’architettura molto aggressiva, di cemento, quadrata, tipo quelle di Franco, in Spagna. Era difficile lavorare lì. Abbiamo allora iniziato a parlare con la gente del quartiere. Mi hanno raccontato che una madame Minoshka, una contessa russa, ospitava in quell’albergo i politici dell’Adriatico. Questa però non era contessa e non era russa, ma napoletana. Ho iniziato a immaginarla con il suo mestiere in questo luogo decadente e finalmente un giorno ho pensato che potevamo fare un lavoro sulla drammaturgia della decadenza, anche perché questo è lo spirito di Rimini. Una decadenza forte che si può odorare. Abbiamo cercato la poetica della decadenza. Per me è stata una bellissima esperienza. A Londra era una vecchia stazione di autobus, in Toscana un castello del IX secolo e in Slovenia una ex fabbrica.

Quindi voi quando arrivate vi relazionate con lo spazio. Ma cosa fate, esaltate gli elementi architettonici?

Parliamo tanto con la gente. Per conoscere la storia recente. Mi piace andare nel posto e sentirlo.

Quando montate lo spettacolo in un determinato luogo, poi resta sempre lo stesso per tutte le repliche, anche qui a Roma?

Sì, anche adesso all’Università, ma è differente per ogni spettatore, perché è molto più importante quello che non vedi. Quello che vedi non è così importante.

Oscurità, silenzio e solitudine sono tre – definiamole- condizioni basilari sulle quali si regge lo spettacolo. Può accadere che qualche viaggiatore abbia paura ad entrare nel labirinto?

C’è una relazione tra curiosità e paura. Se la prima è più forte della seconda tu vai attraverso la paura e trasformi le cose. Comunque, l’idea non è creare paura, nessuno ti fa fare niente, gli abitanti sono sempre presenti. L’oscurità si utilizza semplicemente per motivare immagini. Un immaginario personale. Quando non vedi puoi odorare o toccare. In ogni caso, per me, la cosa più importante è fare un gioco.

La tua ricerca, almeno in questi ultimi anni, ruota intorno a mito, rito e gioco. Ci spieghi questa relazione?

Il gioco è l’unica, l’ultima forma di rito che noi oggi abbiamo. Un rito che non può essere giocato diventa condizionamento.

E drammaturgicamente come si risolve?

Storicamente il problema non è cos’è il teatro, ma cosa è il gioco. Chiediamoci perché giochiamo o cosa succede quando giochiamo. Interroghiamoci sul teatro come forma di gioco. Il teatro esiste ma non ha una radice se non nel gioco. Un buon gioco è una cosa molto seria. Pensa alla serietà che ha un bambino che gioca.

Forse i giovanissimi vedono il teatro come un gioco, ma per gli adulti è diverso. È difficile che entrino in una sala teatrale pensando di partecipare ad un gioco. Invece per Oracoli l’invito – in qualche modo – è proprio questo. Quindi cambiando il livello di partecipazione dello spettatore cambia anche l’idea di teatro.

Un poco credo che cambi. Una domanda interessante è: cosa è il teatro. All’inizio, per due anni, è stato difficile pensare di proporlo per uno spettatore alla volta. Era un serio problema economico.

La seconda parte della trilogia (La fiera del tempo vivo, ndr) era per duemila persone, si faceva all’aperto dentro una grande celebrazione, una festa.

Quindi il teatro è ancora un rito.

In questa forma sì. Se non posso giocare non mi interessa. È pericoloso pensare che devo farlo per rispetto alla cultura. La cultura deve essere un piacere. La serietà, il rigore deve riguardare l’estetica. È necessario un lavoro concettuale molto preciso prima, ma questo rigore non deve essere una costrizione. La spontaneità non si improvvisa. È come arrivare ad una responsabilità, ad una libertà.

Anche per gli attori cambia il modo di lavorare.

Noi parliamo di abitanti, di abitare lo spazio. Non pensiamo di dimostrare.

E lo spettatore?

Chi entra dentro uno spazio incontra un abitante, ma è libero di guardarlo, di relazionarsi con lui o di ignorarlo.

Resterai a Modena? Quali progetti hai per il futuro?

A Modena continuiamo il lavoro di ricerca e di formazione, contemporaneamente a Mostoles (a sud di Madrid) funziona la nostra scuola. Sto pensando di raccogliere in un libro la mia esperienza, partendo dall’inizio della mia memoria. Per ripensare anche a quel mio “quarto d’ora” che è stato il 1968 a New York (ha vissuto nella Grande Mela per dodici anni, quattro dei quali è stato drammaturgo al Teatro La Mama, ndr). Sono molto lento. Ci vorrà un anno e mezzo. Ho parlato con un editore a Zurigo, verrà pubblicato anche in Inghilterra. Ma credo che anche in Italia si farà qualcosa.

Quindi, ti sei trovato bene a lavorare in Italia?

Sì, Roma poi è così interessante, sia la città sia la gente. Per me era difficile pensare a una Roma che non fosse storica o simbolica. Sono aspetti molto pesanti. E invece…

A Roma c’è un equilibrio tra Nord e Sud. È la prima città del Sud o l’ultima del Nord?

  

2. IL TEATRO È UN ALAMBICCO [254] .

Mi piacerebbe partire da qualche momento meno conosciuto e più lontano della sua esperienza teatrale. La scuola di teatro a Bogota, il caffè La Mama a New York. Per vedere l’evoluzione e cosa è stato trasportato di tutto ciò nelle esperienze più recenti.

La prima cosa che ho fatto è stata quarantacinque anni fa, io ne avevo quindici. Quando ho fatto la scuola di teatro a Bogota. Avevo amici in una compagnia di teatro che lavorava di notte. All’inizio ero un aiutante: al pomeriggio andavo alla scuola e alla sera stavo con loro; mi chiamavano “estudiante”, perché ero così giovane. Un giorno mancava un attore e io l’ho sostituito. Il mio interesse vero non era il teatro, ma il circo, i burattini, la strada, la celebrazione popolare, il giorno del mercato.

Quindi gli studi antropologici che ha fatto in seguito avevano questo senso?

Sì, il mio interesse era in quella direzione. E quando sono andato alla scuola di teatro ho trovato invece un’idea molto differente. Non la mia idea. Loro lavoravano su un concetto molto stretto di teatro. Il problema era che per loro questo concetto era assoluto: il teatro è così e non c’è altro.

Ha lavorato anche nel teatro classico?

Sì, con questi amici si faceva teatro classico spagnolo: Calderòn, Lope de Vega. A me in quell’epoca interessava molto la Commedia dell’Arte italiana. Dopo, infatti, negli anni sessanta, ho fatto la Commedia dell’Arte nelle strade di Harlem e il lavoro era per le strade di Harlem.

Era il Gut Theatre?

Sì, il nome del gruppo era quello. E letteralmente guts sono le trippe, gli intestini, in inglese to have guts significa… in italiano non si dice, ma in spagnolo si dice tener cojones.

“Avere le palle”, certo!

Perché era molto viscerale. Allora noi avevamo un piccolo posto per il cuchifrito: è un cibo della strada, ad Harlem, sono fritture.

Frittelle?

Sì, frittelle. Questo carretto con le frittelle era bello; si mangiava molto. Il teatro era il cibo. Dentro la nostra opera c’era questo: non so se il teatro fosse solo un pretesto per vendere cibo o viceversa il cibo fosse un pretesto per fare teatro. Ma la funzione era buona; mi piaceva perché era per strada. Al tempo noi facevamo parte del “Movimento per l’indipendenza del Portorico”, perché i bambini non potevano parlare lo spagnolo a scuola; lo spagnolo non era consentito. Il problema del Portorico era un problema nostro. In realtà il lavoro del caffè La Mama era un po’ contraddittorio con il lavoro di Harlem. In quell’epoca La Mama era un teatro di sperimentazione molto interessante, e per me era utile nella sperimentazione di cose non possibili per strada: ad esempio, là ho fatto la prima opera per odori. Mentre il teatro di strada era proprio un teatro delle origini, della festa. Ma più lavoravo sulla sperimentazione del nuovo teatro, perché era lo spirito del momento, più capivo che non c’era niente di nuovo; si pensa di fare una cosa nuovissima, ma no. Eravamo contro la tirannia della vista, dell’occhio.

Del vedere dello spettatore, vuole dire?

No, del nostro occhio. Se l’occhio domina, gli altri sensi muoiono. Questo lavoro con la festa di strada, la celebrazione tradizionale era un teatro per partecipare, per fare collettivamente. Ma se tu parli del corpo devi parlare della memoria, della memoria del corpo, perché non c’è l’uno senza l’altra. E se parli di memoria, devi parlare d’identità. Il lavoro allora era molto politico, perché il momento era politicizzato. Il problema era anche molto concreto: lavorando per strada, avevamo scontri con la polizia. Ci mandavano via. Erano altri tempi.

Il lavoro che facevate era all’interno di un movimento molto intenso di gruppi teatrali, in quegli anni in America, e fortemente politico, perché voleva incidere nella società, lottare contro certe chiusure. Pensa che non ci sia più tutto ciò nel teatro oggi?

Il teatro è sempre come un atanor, è il corno dell’alchimista.

L’alambicco?

Sì. Io ho sempre sentito l’esperienza teatrale come un alambicco (ride, ndr). Il teatro è un alambicco. Un alambicco che lavora con ciò che abbiamo al momento, lo spirito che nel momento è vivo. Il problema è come creare un’esperienza. Sì, per me, realmente, l’esperienza teatrale deve essere prima di tutto un gioco. Voglio giocare. L’esperienza teatrale come sacrificio, come cultura, come momento intellettuale non mi interessa per nulla. Ciò che conta è il juego, che può essere una cosa molto seria, molto intensa. Il problema è cosa succede in un alambicco. “Cosa succede?” è la domanda del teatro. Come trovare un gioco per entrare nell’alambicco, come trovare un piacere in questa intensità? Tre giorni fa ho visto una donna che raccontava una storia al suo bambino - ero alla stazione dei treni. Il fratello più grande gli faceva un movimento per spaventarlo. Al bambino piaceva più il gioco del fratello che la storia della mamma e chiedeva ancora e ancora al fratello di spaventarlo. Perché per questo bambino era così importante essere impaurito cinque o sei volte senza stancarsi? È stata  una lezione importante: la storia della mamma era molto lontana.

E la voce, le parole?

Anche la voce può essere un gioco. Però noi usiamo le parole per aggredire, per mentire, per manipolare; condividere con le parole non è facile (ride, ndr). Le parole si possono usare se si riesce a farle diventare più necessarie del silenzio. Ma la domanda è come creare il silenzio.

Un’esperienza, un racconto, un gioco teatrale respira sempre attraverso i suoi silenzi. Se respira è per il silenzio, che è l’unico modo di entrare. La domanda è: che alambicchi erano necessari negli anni sessanta e che alambicchi sono necessari ora? Dunque, il teatro come necessità. Io credo che la domanda non sia qual è l’origine del teatro, perché è una domanda che ti confonde, ti crea ragnatele letterarie. Il problema è cos’è il gioco e perché giochiamo. Poi possiamo pensare al teatro come a una forma di gioco. Ma la prima domanda è rivolta al gioco, non al teatro. È l’homo ludens. Perché se ci avviciniamo al teatro con la domanda sul teatro medesimo creiamo una struttura pretenziosa, molto pesante.

Ma il gioco, così come viene usato nel suo teatro, è anche un modo per allontanare lo spettatore dai ruoli sociali prestabiliti e farlo entrare in nuovi ruoli?

Il gioco è una trasformazione del simbolico. Una cosa è la trasformazione del simbolico per il processo in sé stesso, per il piacere della trasformazione, altra cosa è la trasformazione del simbolico per ottenere un prodotto, una costruzione finale da condividere. E questo si avvicina di più al problema del teatro, dell’arte. L’altro problema è la trasformazione del concreto.

Una domanda interessante è che relazione c’è tra la trasformazione del simbolico per il processo medesimo (senza pensare a cosa diventerà) e la trasformazione del simbolico per una costruzione finale e cosa c’entra questo secondo momento con la trasformazione del concreto. Se io trasformo il simbolico per produrre una costruzione da condividere, necessariamente questa costruzione finale deve essere essa stessa una trasformazione del simbolico. Se non lo è dipende dal fatto che abbiamo il problema della presenza della letteratura nel teatro e pensiamo che la letteratura teatrale sia teatro.

Questo succede quando parliamo della trasformazione del concreto nel contesto della trasformazione del simbolico: succede con un bambino che non gioca o con una società che non gioca a trasformare il simbolico e che ha solo relazione con la trasformazione del concreto. Il problema del non gioco è il problema della manipolazione. Perché nel gioco possiamo essere creatori della nostra storia e nel non gioco lavoriamo perpetuamente nella ripetizione di un meccanismo, di una struttura logico-formale che può trasformarsi in molte forme differenti, ma è sempre la stessa. In generale il problema del gioco è fondamentale perché è un processo di conoscenza.

In una società come la nostra dove non si ha più comunicazione con le proprie origini, con una tradizione vera, con un linguaggio sensibile che abbia un intimo legame con le cose e le rivesta del riverbero del nostro spirito, come si può far sentire le persone parte di un gioco che è rito di trasformazione?

Il gioco è l’ultimo rito possibile per noi. Se è possibile sognare e se è possibile sognare di dare forma visibile all’invisibile, allora è ancora possibile collegarsi (come una persona che cerca di collegare la spina della sua radio alla parete) al nostro sogno; e sempre sogniamo. E allo stesso modo il corpo sempre ricorda; ricorda il suo sogno, tiene sempre una memoria.

Dunque il rito oggi nel teatro è il gioco?

L’unico rituale possibile oggi per me è quello che è strutturato come un gioco. E il rito si dà come necessità di fisicizzare un mito, perché il rito è una fisicizzazione del mito, è una sua espressione, quando non è imposto, quando la gente partecipa non per il rispetto al rito, ma per piacere di farlo, di congiungersi. È questo chiaramente l’elemento del gioco: un’azione in cui si entra liberamente, partecipando a un’attività che ci mette in comunicazione con lo spazio, con l’universo e con noi stessi. È un piacere. Il problema è se il rituale ha perso il senso del gioco, se è diventato un’attività costrittiva. Il rito-gioco deve darsi come una necessità. Se non è così, è imposto, è fatto per rispetto, come per alcuni, non per tutti, la messa cattolica. Per altri l’andare al teatro. Come un atto sociale.

Il ruolo sociale dell’andare a teatro.

Sì, non per la necessità del gioco in sé stesso, ma per rispetto alla cultura. Questo è decadente. Perché si perde la relazione forma-contenuto, la relazione con l’esperienza viva, organica. Il rito-gioco porta una necessità. Il gioco dionisiaco, Dioniso stesso, sempre fu un rituale sovversivo, illegale, nell’antica Grecia, solo tardi i politici di Atene legalizzarono la festa dionisiaca perché era diventata una comune necessità.

In Oracoli lo spettatore entra dentro a qualcosa che lo rende attivo e in un certo senso diventa attore lui stesso. Cosa riceve lo spettatore da questo teatro rispetto al teatro comunemente inteso?

Il piacere di immaginare, di giocare. La cosa importante in Oracoli, ma anche ne La memoria del vino, è ciò che vedi e ciò che non vedi, quello che ascolti e quello che non ascolti. L’opera è stata costruita in modo che le immagini visuali, sonore, sensoriali sono pretesto per creare silenzio, per creare lo spazio vuoto. Se non hai uno spazio vuoto, il tuo spazio, dove l’immagine non è costante come in televisione, non puoi respirare, digerire, trovare te stesso. Noi abbiamo la necessità di giocare ed immaginare, di giocare la nostra vocazione. I giochi fondamentali sono arcaici, per me. E sempre i giochi fondamentali portano gli archetipi: come espressione sensibile dell’inconscio collettivo. Abbiamo necessità di giocare all’archetipo per due ragioni: una per legare l’azione creativa all’archetipo, per non renderlo letterario (Hitler ha reso il mito letterario e ha fatto quello che ha fatto).

Il mito diventa rigido e sta di fronte a noi come un incubo.

Noi dobbiamo conoscere il nostro archetipo, confrontarci e giocare con esso. Però è un gioco, non un’imposizione; l’archetipo, il mito non si può imporre. Perché il mito imposto è la pazzia. Se noi stiamo su questo pianeta è per essere i creatori della nostra storia, la nostra vocazione. In spagnolo per dire “come va, come stai?” si dice para onde lo lleva?, cioè “dove ti porta?”.

Come se tu fossi tirato, trascinato da qualcosa.

Sì. Perché noi non diventiamo creatori della nostra storia, ma oggetti di altri che pensano per noi. La soluzione a ciò non è metodologica o tecnica; è un problema di concetto: rispondere alla nostra vocazione di esseri umani che devono creare la propria storia. Ecco perché mi piace Dioniso, perché il sapere dionisiaco è un sapere sensibile, in cui cultura e naturalezza si conciliano. Il sapere della modernità è quello in cui il sapere domina la naturalezza. Il sapere dionisiaco è questo: sovvertire lo schema, il limite e cercare il “sublimite”, che è uguale al “sublime”. È  fondamentalmente il sapere del gioco.

Mi viene in mente che nel Dioniso delle Baccanti di Euripide c’è sia lo scatenamento selvaggio, sia il seguire le teletai, le regole del rito. La precisione del teatro ha una bella metafora nell’appartenere al Dioniso della trance regolata, quella che non porta mai fuori al punto tale da non sapere più nulla di sé.

Io penso che sia buono andare fuori di sé stessi se poi si è in grado di tornare. Perché se non si ritorna è la pazzia. L’incontro con l’archetipo dionisiaco comunque, per me, deve basarsi sulla libertà del gioco, non sulla letterarietà che separa il mito da noi.

I caratteri dell’oscurità e del silenzio nel suo teatro hanno dunque il valore di permettere a chi gioca di trovare una via più aperta?

Bisogna trovare l’equilibrio tra il gioco collettivo e lo spazio individuale. Una storia che non ha silenzio non respira; una buona esperienza teatrale respira per il suo silenzio. L’esperienza ludica, teatrale, è una struttura di tensione; ma il punto ottimo di risoluzione della tensione deve sempre essere un momento di respirazione personale, è un “ah-ah”.

Un accorgersi.

Ma non deve essere un ah-ah intellettuale, se capita anche intellettuale, ma non solo. Un’apertura verso me stesso. Altrimenti è come un foglio in cui tutte le parole sono attaccate. L’altra domanda essenziale, legata al silenzio, è quella sull’oscurità; perché quando parliamo di oscurità parliamo di silenzio: l’oscurità è un silenzio. La qualità del silenzio. La parola è necessaria, o possibile, solo nel momento in cui è più necessaria del silenzio.

Allora in questo teatro oscuro e silente, dello spettatore che gioca, chi è l’attore e qual è la sua tecnica?

Io credo che l’attore per salvare il teatro deve desaparecer, “sparire”. Credo che generalmente l’attore sia un nemico del teatro; dico il cattivo attore. Prima di tutto gli attori devono imparare ad abitare lo spazio. La qualità principale dell’attore è  imparare a sparire. Se io ti racconto una storia molto interessante, sono bravo solo se ti faccio rapire dai particolari della storia stessa e dimenticare di me, del narratore. Devo portare la storia a un punto in cui la presenza dell’attore non è importante, ma l’immaginario che sta sorgendo. Se tu dici “guarda che bravo questo attore a fare quella cosa o quell’altra” non va bene. Se vai via invece con l’immaginario nella tua testa…

Come dopo un sogno?

Sì, allora va bene. Il nostro problema è come sparire, come donare un immaginario. È anche un problema di umiltà, di suggerire più che di mostrare e illustrare. Come farlo? Io penso che per l’attore questa sia la contraddizione  principale. Imparare a sparire.

Allora finalmente arriviamo al nuovo progetto, La memoria del vino o I giochi di Dioniso. Qual è il legame con gli altri due momenti della trilogia, Il filo di Arianna e Oracoli; e quali le differenze?

Ne Il filo di Arianna noi lavoravamo sul Minotauro e la ricerca di Teseo. Era un incontro con un Minotauro incatenato. Nella tradizione greca il Minotauro è il nemico dell’umanità, il nemico della razionalità e, nella tradizione greca, Teseo lo uccide. Nella tradizione minoica Teseo gioca con il Minotauro un gioco pericoloso. Nella nostra prima versione Teseo si confronta con il Minotauro con terrore; in solitudine si incontra con il suo Minotauro interiore incatenato. Ne La memoria del vino il Minotauro si toglie le catene ed entriamo così a giocare con il sapere di questo Dioniso. In Oracoli lavoravamo sul chicco di grano che è terra; si parla della premonizione e della crescita. Ne La memoria del vino la drammaturgia è legata all’aria, non alla terra. La radice dell’uva è la più profonda rispetto all’altezza della pianta. Dalla sua aria dipende la sua radice. Lavorare su una drammaturgia del vino significa pensare nel rischio dell’aria, del salto nel vuoto, nella pazzia. Non la crescita organica che c’è prima. Però nelle due esperienze precedenti l’intuizione principale è la stessa che c’è ora: una critica alla tirannia della razionalità dell’occhio come servitore della razionalità.

Concretamente, al momento della costruzione dello spettacolo come lavora sulla drammaturgia insieme agli attori per creare le immagini e la struttura?

Io propongo una struttura basica, che è come dire una regola del gioco, un’indicazione per giocare. È un po’ come proporre una strada, una direzione. Noi sappiamo che la spontaneità non si improvvisa. Non sono interessato a difendere una proposta dogmaticamente; mi piace il confronto, imparare ad ascoltare le altre proposte.

E poi su questa proposta gli attori lavorano in modo collettivo o individuale?

Nessuna cosa può rimpiazzare il lavoro individuale. C’è anche il lavoro collettivo, ma il confronto individuale con se stessi è necessario.

Gli oggetti, le scene nascono all’interno di questo processo di ricerca?

Credo che tutta la creazione artistica, quando si lavora con un gruppo di persone, debba essere una creazione collettiva. È impossibile lavorare su un processo creativo senza appropriazione e trasformazione personale. Sicuramente il creatore, l’artista è una persona che ascolta, che sa che il suo prodotto è un prodotto sociale, che risponde a un momento storico e organico di cui lui è un mezzo di espressione. L’artista è un veicolo per facilitare la configurazione di una struttura; però nessuna creazione è un atto solitario, individuale. L’atto creativo per sua natura è un atto sociale. Ha un legame con la cultura.

In Oracoli c’era uno spettatore alla volta che faceva il suo viaggio, ne La Memoria del vino invece ci sono cinquanta spettatori. Come cambia il rapporto tra lo spettacolo e lo spettatore in due condizioni così diverse?

Qui il nostro lavoro è stato di giocare sull’equilibrio tra l’individuale e il collettivo. Perché qui noi lavoriamo sulla celebrazione collettiva, il carnevale. Quest’opera è fondamentalmente un carnevale: il pubblico diventa parte di un carnevale di maschere, dove la gente si mette la maschera, beve il vino, danza se vuole, ma non è necessario, è un carnevale, si può danzare oppure no. Mi dispiace molto quando in uno spettacolo sono costretto a fare qualcosa. Non è bello. Se sospetto che in un’opera sono costretto a fare qualcosa di fronte a un altro affinché l’opera funzioni, io scappo. Se mi piace lo faccio.

  

3. VERSO UNA POETICA DE LOS SENTIDOS [255] .

Il tuo è stato un lungo percorso. Quando e come è nata precisamente l’idea di creare il Teatro de los Sentidos?

È semplicemente una tappa. Il mio primo gruppo fu il Teatro de los Sotanos (scantinati) nel 1955 a Bogota, poi venne l’esperienza del Gut Theater ad Harlem nel 1965, del Teatro de los Barrios Orientales (quartieri orientali)  di nuovo a Bogota nel 1973, fino ad arrivare al gruppo-taller di investigazione della poetica sensoriale all’Università Nazionale della Colombia nel 1985.

Tutte queste tappe hanno in comune la ricerca di un teatro per sentire, per celebrare, per trasformare.

Ogni evoluzione va delineando un’essenza o risponde a una domanda che in fondo è la stessa cosa. Ad ogni modo, qualsiasi essere umano che incontro attraverso lo strumento del teatro mi aiuta a vivere e a prepararmi alla mia morte.

Cos’è il Teatro de Los Sentidos?

Non so dire se sia un teatro d’avanguardia, semplicemente posso dire ciò che non è: non è teatro sociale, Teatro Ragazzi, teatro immagine, teatro letterario. Le differenze stanno nella qualità della poetica, nel fatto che essa sia onesta o meno, che annoi oppure no, che sia pretenziosa o non lo sia. Il teatro è uno solo.

La tua ricerca si è concentrata in particolar modo sul rapporto tra il rito, il mito e il gioco. Potresti spiegarci questo legame in relazione al teatro?

Sono tre momenti di un medesimo processo. Il rituale oggettiva il mito, il gioco lo rende possibile e questo è il teatro.

Hai più volte affermato che prima di chiedersi che cos’è il teatro è importante chiedersi che cos’è il gioco. Credi che quest’ultimo sostenga il primo?

Naturalmente. Il gioco non è un genere performativo all’interno del teatro e il teatro è una forma secondaria di gioco.

Quando il gioco si verbalizza c’è pericolo di ideologizzarlo, per questo il vero gioco parte dalla memoria del corpo.

Pensiamo alla relazione tra concetto e metodo: il concetto è l’essenza, mentre il metodo è la tecnica che utilizzo per arrivare all’idea essenziale. Ecco, il concetto essenziale appartiene al giocare e il teatro è semplicemente un metodo che utilizzo per giungere all’essenza di questa forma di gioco.

Esiste una forma universale del giocare. Il teatro, appoggiandosi al gioco, non può più essere soltanto visuale, deve saldare quella frattura tra corpo e mente radicata nella cultura occidentale.

Il teatro dev’essere un piacere. Quando i bambini giocano alla guerra fanno teatro perché trasformano la loro realtà, trasformano un’esperienza per comprenderla.

La psicoterapia può essere pericolosa, può utilizzare il gioco in modo sbagliato riducendosi ad una forma di manipolazione poco onesta, mentre il gioco dev’essere libero ed egualitario e soprattutto deve diventare la forma per condividere un’essenza. 

Victor Turner parla di fenomeni liminali e di fenomeni liminoidi e crede che il rito sia liminale e che il teatro sia per lo più liminoide. Condividi quest’affermazione?

Sì, sono d’accordo con questa precisazione, però il mio interesse principale è la ricerca di una poetica, preferisco allora distanziarmi dalla terminologia tecnica. Mi piace situarmi nel territorio dell’ambiguo e avvicinarmi all’esperienza liminoide dell’incertezza. In fondo è solo un problema semantico.

Qual è il fine del Teatro de los Sentidos?

Quando un essere umano realizza un’opera, un lavoro, un’azione, non realizza soltanto queste cose ma anche sé stesso. Noi esseri umani siamo qui come creatori della nostra storia, non per essere oggetti passivi di una storia che non sentiamo come nostra.

Con il nostro teatro, attraverso i nostri laboratori e i nostri spettacoli, noi investigatori, abitanti di uno spazio, creatori del Teatro de los Sentidos diamo vita a una storia che non è solo quella delle nostre opere ma che è la nostra stessa storia.

Speriamo che il Teatro de los Sentidos possa contribuire a questo “crearci”.

Crediamo che lo faccia quando suggerisce ad ognuno di noi di sviluppare le proprie domande interiori. Esse sono la nostra ricchezza principale perchè giocano a trasformarci in continuazione. Di domanda in domanda l’uomo arriverà sempre di più al centro di sé stesso.

  

APPENDICE 2

Riportiamo due interviste: la prima, a cura di M. Tomasi, al regista Vania Castelfranchi e la seconda, a cura di M. Andreoli, al Gruppo Ygramul.

1.    UN INCONTRO POSSIBILE. TRA TEATRO E GIOCO DI RUOLO [256] .

Come e quando nasce il tuo interesse per i giochi di ruolo?

In me non c’è stata la nascita di nessun interesse, nulla ha segnato un vero e proprio principio. Direi più che altro che sono stato fortunato o, meglio, che il tempo e le circostanze e l’esempio di mio fratello Yuri mi hanno particolarmente favorito.

Tutti i bambini e le bambine giocano di ruolo (o dovrebbero farlo!), si sbizzariscono in continue ed eclettiche esplosioni del come se, interpretando in ogni momento della loro infanzia cavalieri, agenti segreti, dame spadaccine, pirati, animali misteriosi.

Io avevo una violenta passione per questi giochi fantastici di immedesimazione e di trasformazione del reale, li vivevo con intensità estrema e grande serietà, accompagnato da un importante amico reale, Pierpaolo, e da miliardi di comparse immaginarie che mi ruotavano nella mente.

La grande capacità di mantenere il limite, di uscire e rientrare nel gioco con celerità e impegno mi portava però ad una sensazione straniante: entravo e uscivo dal mondo del come se, ma quell’universo parallelo seguitava ad esistere, non si fermava! Così, anche mentre non giocavo, il mio pensiero tornava spesso a quei personaggi, alle situazioni vissute e a come si stessero evolvendo, mentre io non ero là.

Il come se si arricchiva dunque di un lato oscuro un poco pirandelliano ed angoscioso che neppure io riuscivo a gestire pienamente: le storie montavano, si muovevano, a volte complottavano e il mondo fantastico costruiva trame, saghe, epopee.

Da adulto, giocando spesso con bambini di varie età e culture, mi accorgo che questo fenomeno (che allora a me pareva affascinante e unico) non è così raro, ma che effettivamente modifica il pensiero del gioco, gli dona ancora più significato ed importanza. Il giocatore non è più un dio in grado di modificare l’universo e strutturarlo come un suo puzzle, è una pedina, vive le sue avventure esaltanti e stupefacenti, ma è anch’egli una comparsa che appare e scompare da quelle terre.

Il passaggio che il mio pensiero aveva compiuto (spiegherò in seguito quali ragionamenti mi ha portato a fare sul teatro) mi poneva di fronte a un bivio spaventoso: occuparmi di più della mia vita reale, della scuola, del mio cane, delle mie letture o divenire un personaggio più importante e presente nel mondo del come se?

Questo interrogativo, presente nell’infanzia di ciascuno, era per me ingestibile, disarmante, poichè il gioco rappresentava un mondo molto più vasto del reale: nel fantastico le terre da visitare erano maggiori, gli amici erano molteplici, le mie potenzialità eroiche superiori e oltretutto le emozioni che provavo giocando erano esplosive, più forti rispetto a quelle del mio piano affettivo reale.

La scelta la presero in realtà gli eventi e, come ho accennato prima, mio fratello decise il mio incontro con il gioco di ruolo. Per non dilungarmi racconterò brevemente i due fatti ai quali mi riferisco, sperando di aver suggerito già ampiamente il potere (respingente ed ammaliante, come tutti i poteri) di quel come se.

Avevo, credo, 10 anni. In un gioco d’avventure, condotto con il mio amico Pierpaolo e con una banda di ragazzini che vivevano nella mia strada (in un’isolata periferia romana), mi arrampicai su un albero di mele che stava nel giardino incolto di una casa abbandonata.

Afferrai un piccolo frutto selvatico, raggrinzito e ammaccato, tesoro della nostra avventura. Il mio personaggio esultò, eroe epico di un mondo agitato da chissà quali guerre, lasciò la presa ed io precipitai.

L’orrore di quella caduta, che mi fece svenire e accrebbe enormemente la mia paura del vuoto e il mio senso di vertigine, inchiodò ogni mia scelta.

Il pensiero fu banale nella sua logica matematica e pericoloso: se mentre vivevo nel come se il mio corpo reale incarnava quelle avventure, le mimava, ne ricreava i suoni e le dinamiche, tutte le volte che i miei personaggi si sarebbero trovati dinanzi alla morte anche io, il Vania reale, rischiavo di morire!

I sogni interagiscono sul reale. Mi balenò quel pensiero che avrebbe mosso le righe delle sceneggiature di Wes Craven per Nightmare, che aveva già animato grandi scrittori del noir e della letteratura horror, un incubo molto presente nell’uomo, un archetipo di orrori antichi e di sopravvivenza. Io non volevo morire.

Mi ritrassi dal mondo fantastico, fuggii, me ne staccai con violenza estrema e frequentai per un po’ di tempo giochi che non mi coinvolgessero troppo, ove i personaggi restassero il più possibile incastrati in oggetti estranei da me: pupazzetti, lego e disegni.

In quel momento pericoloso (mi sarei potuto perdere per sempre e abbandonare il vero e profondo come se) il mio fratello maggiore,Yuri (aveva 14 anni), arrivò con un role-playing-game: Dungeons & Dragons. La scatola rossa di quel gioco prometteva i miei mondi fantastici, la mia eroicità limitata ad una comparsa in un universo enorme, popolato di grandi nemici, di potentissimi draghi, di incomprensibili enigmi e contemporaneamente preservava la mia vita, poichè l’immedesimazione non sarebbe passata attraverso il mio corpo: avrei cavalcato il fantastico seduto su comode regole, armato di un dado e protetto da parole, carta e matita.

Abbracciai i giochi di ruolo con una voglia spasmodica, quasi in crisi di astinenza per il lungo periodo trascorso distante dal come se e nacque il mio “salvavita”: il chierico guerriero Harlog.

I giochi di ruolo, per chiunque, non credo siano un incontro, ma un ritorno a schemi e voglie di gioco abbandonati.

Grazie alla loro struttura permettono all’adulto di avere delle garanzie, gli formano attorno quei corrimano e quelle barriere di emergenza (gioco serio e capacità di entrata e uscita continui) che i bambini sanno gestire così bene e ai quali gli adulti rinunciano e si disabituano.

Fui fortunato ad incontrare Dungeons & Dragons in quel momento di grande bisogno e  di deriva nel reale.

Giocare di ruolo ti ha portato in qualche modo  anche alla passione per il teatro?

È stato un battello, un ponte continuo che da quella caduta d’ infanzia mi ha trasportato sino al teatro. Infatti la paura di quel salto nel vuoto mi è rimasta incollata addosso, si è infiltrata nelle mie ossa e fino ad ora non sono riuscito a stanarla, paura di morire, sì, ma anche molto altro.

Da quel momento il come se è restato limitato nei giochi di ruolo e non è vissuto in nient’altro, scalciando in passioni per il cinema, per la lettura e i fumetti.

Il gioco di ruolo, dovendo sopportarmi per così tanti anni e subendo una pressione di grandi energie che desideravano potenziare le mie avventure e il mondo fantastico, è mutato.

È nata da ciò l’esigenza di sperimentare e di creare role-playing-game nuovi, sino ad arrivare a Elish.

Dai 10 anni in poi ho continuato a giocare il come se senza mai abbandonarlo, attraverso mille giochi di ruolo.

A 19 anni, per puro caso, ho incontrato la possibilità di lavorare in un teatrino romano. Un regista di nome Marco Carniti stava mettendo in scena un’opera contemporanea, Dutchman, sul rapporto tra una donna bianca ed un uomo di colore, nella quale  si confondevano sensualità, morbosità e preconcetto razziale. Il regista stava costruendo la messa in scena in una logica cyberpunk, futuribile. Io ero un appassionato ed esperto della  letteratura e del cinema di genere, quindi chiesero il mio appoggio per avere suggerimenti e idee su oggetti, scene e dinamiche.

Banalmente, nell’essere presente a quel lavoro, nel vedere gli attori esercitarsi, i costumi e i trucchi trasformare i corpi, le scene e le luci mutare lo spazio, assaporai per la prima volta il gusto del gesto teatrale e anche qui ritrovai cose che avevo perduto. Nel travaso del come se dal gioco fisico infantile al gioco di parola dei giochi di ruolo, molto si era perduto ed ora lo ritrovavo nel teatro.

Credo dunque che il giocare di ruolo mi abbia permesso di ricordare, abbia semplicemente tenuto sveglio il mio senso del come se, vivificando quotidianamente la spinta al sogno. Quando ho ritrovato quei sapori li ho riconosciuti immediatamente, mi erano prossimi ed erano rimasti solitari compagni e satelliti del mio crescere, per tanti anni invisibili ma presenti.

Credo che l’abbandono del come se, in Italia molto favorito da una cultura scolastica ed educativa avversa al gioco o denigrante, porti un intorpidimento di quegli aspetti d’improvvisazione e di creatività tanto raccontati da registi e studiosi di teatro. Le abilità si freddano, si addormentano e, anestetizzate dal tempo, si abbandonano, cadono dalla vita e dal corpo come pelle morta.

È una delle grandi battaglie contro l’oppressione di cui parla Vargas, una violenza che ci viene portata dall’esterno ma che massimamente si intrufola in noi, ci trova come primi e quotidiani sostenitori, rendendonci impacciati, legandoci e immobilizzando il nostro emisfero fantastico.

Sono stato fortunato poichè ho fatto palestra continuamente con il gioco di ruolo, trovando sempre gruppi con i quali giocare e quando sono approdato nel dietro le quinte di quel teatrino romano ero pronto a riconoscere quei gusti.

Come nasce Elish?

Non desidero dilungarmi molto su Elish. Credo che parlare di un gioco di ruolo sia come il raccontare uno spettacolo o un film: la dissezione di un cadavere, l’impagliamento di un animale. Si può descrivere ogni setola del pelo, ogni organo interno, persino l’emozione che donava il movimento della sua coda, ma l’anatomia di un corpo non è il corpo e non ne riproduce la complessità.

Sono un grande sostenitore delle teorie artaudiane e non posso fare a meno di provare un senso di nausea nelle sintesi di sistemi complessi e rizomatici (da Rizoma di Deleuze e Guattari) come quelli che stanno dietro le strutture di una regia teatrale o una partita di gioco di ruolo.

Per molti sembrerà un modo di esagerare l’importanza dei giochi di ruolo donandogli un valore ingigantito e questo perchè il mercato del gioco italiano ha svilito i giochi di ruolo (dietro la solita, noiosa e antica logica del soldo) in opuscoli di vendita continua, moduli, manuali, miniature, gadgets vari. No. I giochi di ruolo sono molto di più e dovrebbero godere non solo di maggiore fama ma di un superiore sviluppo ed occhio critico.

In Italia vi sono pochi sperimentatori del gioco, pochi studiosi e rarissimi scritti interessanti.

Elish nasce quindi come una scommessa, una sorta di urlo per dare uno scossone ad un ambiente un po’ lento e ristagnante.

Il mercato, incarnando perfettamente una delle molteplici  braccia del kraken [257] , Potere/Violenza/Oppressione, generando dinamiche sempre meno rituali nel senso dionisiaco e sempre più protese verso riti apollinei, abitudinari, restauratori, ha ben presto irretito il role-playing game in una logica di dipendenza e non di creazione.

Come in una lettura perversa del metodo di Moreno, invece di stimolare il “lato sano” per generare nuovi strumenti fantastici e dare l’opportunità di crearsi da soli gli specchi, gli oggetti di cura e di rifrazione di sé stessi, il senso è stato invertito, il gioco di ruolo ha ribaltato la carta del re e si è trasformato nel “matto-mercante”.

Il giocatore non è più un demiurgo, può creare solo entro i limiti posti dal manuale, così, sull’onda violenta delle energie creative, chiede continuamente nuovi scritti, avventure precotte, regole ampliate ed espansioni.  Non parlo di un gioco senza regole, parlo di un sistema ludico pervertito, ove le regole sono create non a salvaguardia delle dinamiche interne e dello spazio/tempo del gioco, ma solo per vendere di più, per essere poi migliorate o ampliate.

Sta succedendo ai giochi di ruolo quanto avviene ai computer che prevedono nella loro natura l’acquisto di sempre nuovi prodotti per essere utilizzati nel tempo, altrimenti il loro progresso è bloccato da programmi inutilizzabili  perché destabilizzati da limiti di mercato.

«Al Principio vi era il drago» riporta la copertina del primo manuale di Dungeons & Dragons. Quando il pubblico è aumentato, si è gonfiato come una marea pronta a liberarsi, una mossa saggia sarebbe stata quella di dare il via a tutti, di comunicare: “andate avanti voi, inventate le innovazioni del nostro gioco, questo è solo uno spunto!”, ma il mercato ha intrapreso la logica inversa al gioco e si è trasformato da ludens in “eliminatore”.

È iniziato così il lungo e infinito monologo dei venditori e il Drago è divenuto anche Gargoyle (espansione expert di Dungeons & Dragons), poi Beholder e via discorrendo secondo altre varianti.

Oggi, ogni gioco di ruolo possiede non meno di 50 espansioni di ogni tipo (regolamentari, di scenario, di ambientazione) ad alimentare il giro di soldi del mercato del role-playing game.

Elish desiderava infrangere l’onda e, nel suo piccolo o minuscolo, vi riuscì. I grandi del gioco di ruolo in Italia, coloro che ne studiavano e ne parlavano già da tempo come Luca Giuliano, PierMaria Marazziti, Andrea Angiolino, Beniamino Sidoti (solo per citarne alcuni, quelli con cui abbiamo avuto maggiore contatto), si voltarono e osservarono con il sopracciglio sollevato, un po’ indispettiti e molto interessati, questa minuscola entità.

Elish era semplicemente un’autoproduzione, infinitesimale nel mercato complesso del gioco di ruolo, un libro che racchiudeva un modo di giocare già esistente in Italia, ma di cui si parlava e si scriveva poco. Il regolamento dichiarava: «noi pubblicheremo pochissimo, non faremo espansioni o altro! Dunque appropriati di queste pagine e inventa, sperimenta, sentiti libero di creare!».

Non si trattò di una vera e propria innovazione o rivoluzione, ma non c’era mai stato un gesto così visibile, politico, dichiarato e praticato in maniera tanto diretta.

Mille partite spinsero il gioco a vasta fama, ad una seconda edizione corretta, alla vendita di oltre 1200 copie, all’uscita del secondo volume, ma tutti i materiali pubblicati da Elish sono sempre stati legati alla voglia di indipendenza.

Non esiste alcuna vera sottomissione tra gli autori e i giocatori, ogni giocatore di Elish ne crea razze nuove e nuove terre, ne diventa autore!

Si ridonava così autorevolezza e potere d’indipendenza ai fruitori. Il giocatore riprendeva in mano le redini di una “direzione artistica” del proprio mondo immaginario.

Elish concepiva un’evoluzione del mondo settario dei giochi. Il mercato (sempre lui, maledetto!) aveva abituato i giocatori ad essere non semplici appassionati, ma conoscitori profondi di manuali, libri, campi del fantastico.

Nasceva la fantomatica figura del Nerd (ricordate il film), lo sfigato nella vita che si getta sull’immaginario (con dipendenza) dei fumetti, dei giochi o degli hobbies e lì trova il suo riscatto e la sua felicità, ma in lui non nasce nulla di sano, non c’è cura dei propri malesseri, c’è al contrario il divertissement, il gioco come passatempo e distrazione dal reale.

Il Potere, come spesso racconta Dario Fo nei suoi scritti, adora quella forma di scherzo molto apollineo, legato alla facezia, all’intrattenimento (più o meno culturale), che per l’appunto distoglie per un po’ di tempo dai problemi e fa pensare gioiosamente. Una pausa. Il profondo come se non ha alcun senso di pausa, è piuttosto definibile come un diverso respiro sul reale e tutta la gioia che si può provare nel viverlo è data da un gusto di conoscenza, da un rito di formazione e di socializzazione. Felicità non di distrarsi, anzi di concentrarsi e formare nuovi legami con i tanti sé stesso e con l’esterno.

Elish dunque dichiarava che le porte erano spalancate, che il gioco di ruolo era vasto, aperto a tutti e la pratica ci diede ragione (come aveva amato sperimentare Moreno). Portammo improvvisati tavoli di gioco di ruolo spontaneo e immediato nei giardini pubblici, nelle scuole, rivolgendoci a persone di ogni età, anche nelle metropolitane. Tutti giocavano. Questo era ed è Elish.

Quando avete costituito il Gruppo Teatrale Ygramul? Seguite qualche teoria teatrale novecentesca in particolare? Cosa fate? Quali sono i vostri obiettivi?

Il Gruppo Integrato di Ricerca e di Teatro Patafisico Ygramul LeMilleMolte nasce e prosegue il suo percorso in maniera disordinata, confusa e complessa.

Ygramul LeMilleMolte è una citazione dalla splendida opera di Michael Ende, La Storia Infinita:

«quell’orribile creatura non era un unico corpo compatto, ma una inimmaginabile quantità di minuscoli insetti di un azzurro acciaio, che ronzavano come calabroni infuriati e in sciami foltissimi si raggruppavano fino ad assumere di volta in volta le forme più disparate».

Siamo dunque uno sciame, indefinito ed interminabile, di presenze più o meno teatrali (scenografi, disegnatori, attori di ogni genere, musicisti, scrittori) condotti dalla mia incerta regia, ancora molto spaesati e alla ricerca.

Il gruppo nasce attraverso le esperienze dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico a Roma, ma da lì, circa sei anni fa, si sviluppa e si arricchisce di nuove sfumature ed energie.

L’idea di base, assolutamente non originale ma comunque sperimentale, era quella di formare un reale punto di incontro (attraverso seminari, laboratori e spettacoli) dove molte personalità differenti potessero barattare i loro strumenti. Questo spazio/tempo di prove/scambio poteva generare idee di linguaggio o semplici riflessioni, atti performativi-spettacolari o improvvisazioni fini a sé stesse, ma il tutto sarebbe rientrato in una semplice dinamica di rapporti momentanei, di crescite personali e di riflessione. Quindi non c’è mai stato un vero gruppo definito o formalizzato. Non esiste nessun documento legale, nessun “deposito S.I.A.E.”. Esistiamo perchè agiamo! Ma l’idea dell’unione e del dialogo, dello scambio interno tra menti e corpi estremamente diversi, aveva nella sua radice l’ideale di un gruppo, di una comunione lavorativa ove si confondessero i ruoli predefiniti e si riscrivessero assieme le regole. Logicamente, per un semplice rapporto di equilibrio politico o di coerenza (anche se questa parola non mi piace, preferirei dire di concretezza), quello che pensavamo sul nostro lavoro interno aveva riflessi importanti nelle ripercussioni esterne del gruppo. Se nel seme era rimessa in gioco l’idea dell’autorevolezza del testo (magari scortata da chi proveniva da un’esperienza accademica e fortemente disarcionata dai teatranti di strada), nel primo ramo che germogliava in superficie si mostravano collages di testi, riscritture, drammaturgie originali, fusioni testuali.

Lavorando su Ubu Roi apparvero testi di Apollinaire, interviste agli attori, citazioni da Borges. Il testo de I Cenci di Antonin Artaud si fuse con i pensieri dello stesso autore in Il Suicidato della Società. Don Chisciotte venne riscritto e rimontato con contaminazioni dal francese, tedesco, inglese e italiano e con intermezzi del fumettista Andrea Pazienza o del poeta Radnoti. 

Se nelle prove l’impostazione di uno schema scenografico d’impianto classico (per provenienza dall’Accademia di Belle Arti) dialogava con le scelte di un appassionato di cinema, all’esterno comparivano citazioni e sporcature di linguaggio: ne La Tempesta i piani d’azione citavano Pasolini e Grenaway e saltavano da un linguaggio all’altro, ne Il Giardino dei Bambini Morti di Mafia s’inseriva il Cunto siciliano di Mimmo Cuticchio e le melodie dei Sepultura.

Se le indicazioni di regia seguivano un metodo cechoviano, poteva accadere che gli attori proponessero tecniche di clownerie o costruzioni coreografiche di Isadora Duncan.

Nello spettacolo Ongossu sono molte e diverse le direzioni “attorali” che, seppur legandosi al teatro di parola, hanno provenienze molto diverse e anche contrastanti.

Quindi i lavori che il pubblico ha scorto in questi anni, fuoriusciti dal magma di Ygramul, sono estremamente disomogenei, schizofrenici.

Si ritrovano, mettendoli bene a paragone ed esaminandoli, diversi punti in comune che probabilmente stanno lentamente delineando una strada, forse persino una poetica, ma c’è ancora molto lavoro da fare.

Essendo però la radice una pubblica piazza, un alveare di mille razze d’insetti che volevano osservarsi, non vi sono metodi fino ad ora prediletti, semplicemente vi sono metodi più volte seguiti, suggerimenti da Cechov, Stanislavskij, Mejerchol’d, Grotowskij, Costa, Beck, Barba, Artaud, Moreno, Brook, Deleuze, Guattari e Castaneda.   

Sarebbe inutile citare tutte le spezie di una cucina che mira a divenire sempre più opulenta e meno mancante, è importante gustarne i prodotti e rendersi conto della grande alchimia avvenuta a quei fornelli.

Sino ad ora Ygramul è sopravvissuto, ronzando e sciamando in molti luoghi romani e in qualche località italiana, ma l’idea che alimenta questa creatura complessa ha fornito il reale carburante. Per quanto il pubblico sia notevolmente aumentato e si sia creata una certa attenzione, le nostre messe in scena hanno ancora un’eccessiva sfumatura di incompiuto e di laboratoriale che il tempo ci permetterà forse di sanare.

Seguitando ad esaminarne l’anatomia interna che ha automaticamente gettato le sue membra all’esterno, Ygramul proponeva uno studio dell’incontro (nel suo concetto ampio ed anche oscuro), un incontro con il sé, con l’estraneo, con il diverso, con il testo, con il gesto.

All’esterno, questo ha permesso la costruzione di molti laboratori ed esperienze teatrali che tuttora proseguono, con realtà che vibrano nel loro potere di diversità, emanando verso il  gruppo quelle ondate di “disagio” che sono divenute ben presto essenziali.

Siamo passati dallo studio di molti tipi di teatro (classico, di strada, di figura, clownerie) al lavoro con corpi disabili, con fisicità dotate di diverse abilità o in stadio di malattia, dall’incontro con menti differenti (nel disagio psichico per malattia, per handicap, per traumi ricevuti) al tentativo di costruzione di un linguaggio e di condivisione con culture e problematiche molto divergenti (dei campi profughi, dei rom, dei barboni cittadini).

Ogni esperienza di Ygramul sino ad ora è stata un capitolo a se stante di qualche cosa che si sta scrivendo e che un giorno forse sarò in grado di rileggere realmente, ma per ora mi limito a reagire al grande potenziale che trovo attivarsi in questa “piazza medievale, ove alchimisti, cavalieri, mercanti, giullari, furfanti e prostitute si incontrano per danzare una notte”.

Sono cosciente non del dove arrivare, ma del come farlo, so con certezza che il gesto teatrale possiede un grande potere, ha una profonda e seria responsabilità (come il giocare) e mi assumo ogni volta l’onere di gettarne gli effetti e i significati nel reale.  So che uno dei punti salienti del nostro “baratto” è la verità di un momento di scambio e d’incontro e dunque la presenza di un continuo rischio e di un disagio.

Il confronto e scambio si conduce con materiali diversi, non quotidiani, inaspettati e inusuali (oggetti di scarto, immondizia, alimenti scaduti, ciò che viene considerato inutile, marcio o semplicemente degradante perchè sporco, abbandonato e polveroso), dunque anche con luoghi o persone invisibili o cancellati [258] .

Con ciò che si dimentica.

Questo dà alle azioni di Ygramul un impeto politico, una voglia di intervento, di allarme, difesa e di messaggio, per quel diritto molto gandhiano e strettamente legato alla lotta non-violenta (che mi è più vicina) della difesa/attenzione alle minoranze.

Non è un gesto democratico, partitico, è più che altro un’esigenza a sottolineare tutti gli angoli d’incontro, gli scarti, i rimasugli di culture, perché lì il gesto teatrale trova vera vita, si alimenta ed ispira. Si tratta più di una politica anarchica (intesa nel suo senso artaudiano di urlo, di lotta per un proprio fratello che è però anche il proprio “cibo”) dove ogni spettacolo mostra anche il disagio che lo ha prodotto, l’ansia e l’incontro con l’ignoto che ne ha scatenato rabbie, paure, dolori, gioie.

Nel nostro affrontare le molte realtà non abbiamo alcun intento pedagogico preciso, nessun fine terapeutico. Usiamo il semplice strumento del teatro per incontrarci e muovere insieme dei pensieri, dei ragionamenti che si poggiano su una sensazione di disagio e di estraneità ma che, proprio attraverso le dinamiche del gioco teatrale, presto portano a soluzioni innovative, inattese.

Porto un esempio dalla semplicità imbarazzante, forse scontata, ma che a me ha donato sempre nuove riflessioni ed energie: prendendo pedissequamente un gioco teatrale proposto da Orazio Costa, anche un semplice meccanismo di riscaldamento e lavorandolo con un ragazzo “normodotato” ed un ragazzo “autistico” (anche in una semplice logica di animazione teatrale o di ancor più avvilente baby parking), bè, quell’idea scritta da un maestro del teatro muta, si modifica. Questo non perché sia stata creata erroneamente, ma perchè noi diamo per scontato che essa contenga nozioni spaziali e temporali (come se queste fossero uguali per tutti), mentre le microsfumature visibili tra due attori sono potenziate enormemente dall’utilizzo e dalla reinvenzione di quel gioco che viene proposta da una mente estremamente differente.

Emanuele, uno dei ragazzi con i quali ho lavorato spesso, aveva una protezione fisica elevatissima, una barriera inoltrepassabile che esplodeva nella fantastica gioia di una risata dirompente, voluminosa, quasi isterica.

Il corpo, trattenuto e sempre statico, si contraeva accompagnato da scrosci di risate se veniva toccato (da chiunque e in qualunque punto), ma se Emanuele compiva un esercizio molto tecnico, un movimento prestabilito e matematico, il suo corpo poteva essere toccato liberamente perchè la sua attenzione era concentrata sul gestire il movimento e le difese calavano.

Questo mi apriva la mente a una grande possibilità di azioni teatrali, spesso confuse e nascoste in un attore e qui visibili come un muscolo spellato. Avevo l’acquario cristallino ove il teatro mostrava la presenza dello sguardo sul corpo, dell’attenzione e dell’incapacità di gestione, del controllo e della distanza. Trovare ciò genuinamente con un corpo/mente “normale” sarebbe stato difficilissimo, mentre Emanuele mostrava questa enorme ricchezza e contemporaneamente, attraverso un gioco teatrale, stava intuendo quando e come gestirla a suo piacimento.

Come molti grandi studiosi hanno già espresso (ed io con questo esempio non gli faccio sicuramente onore) ecco una forma dove il teatro oltrepassa le barriere del metodo terapeutico senza porsi assolutamente queste finalità.

Per concludere questa sconclusionata risposta, molto simile ad un atteggiamento eclettico e spasmodico di Ygramul, dirò che ognuno dei passaggi narrati (e sono solo alcune delle sfaccettature dello sciame) implica anche il rapporto con il pubblico e con lo spazio.

Ogni andata in scena di Ygramul rappresenta un incontro, con spettatori diversi e luoghi diversi. Dunque il lavoro muta, il disagio si rinnova e si vivifica, trovando nuove formule di contatto e di comunicazione. Gli spettatori vengono anch’essi a trovarsi immersi in luoghi disagevoli o imprevisti (luoghi abbandonati, strutture pericolose, materiali sporchi) e l’esperienza dell’andata in scena porta ancora una volta due o più diversità ad incontrarsi.

Sul sito www.gordo.it nel 2002 il regista e drammaturgo romano Marco Andreoli ci ha intervistati. Da quel lungo dialogo è venuta alla luce con chiarezza un’immagine di cui prima non eravamo pienamente coscienti: non solo ogni spettacolo di Ygramul, ogni laboratorio è molto differente, ma ogni replica della stessa messa in scena è particolare. Lo spettatore deve vederci più di una volta!

Per vostra fortuna i nostri tempi di azione sono molto rallentati e per ora il Gruppo Integrato di Ricerca e di Teatro Patafisico Ygramul LeMilleMolte costruisce un suo spettacolo all’anno, porta avanti quattro laboratori annuali che si concludono in “aperture al pubblico” e intanto segue invisibile il suo percorso di ricerca e di studio.

GRUPPO = perché, per sua natura, segue una logica cooperativa, di dialogo e non potrebbe che esistere come organismo di almeno quattro personalità differenti.

INTEGRATO = perchè tende a costruire l’integrazione con diversità (culturali, fisiche, mentali, sociali).

DI RICERCA = perchè opera o almeno tenta di lavorare nella ricerca di nuovi linguaggi o strutture teatrali (cosa così dificile e faticosa in Italia), ma anche perchè muove i suoi passi in molte direzioni differenti, collaborando alla produzione di riviste, di CD, di fumetti, di video.

E DI TEATRO = penso di aver parlato abbastanza di questo.

PATAFISICO = collega il nostro modus operandi al grande pensiero dell’autore Alfred Jarry (inventore della “maschera” dell’Ubu), alla “scienza delle soluzioni immaginarie” (alla quale presero parte Calvino, Borges, Eco e che si riallaccia al movimento dadaista e al surrealismo).

Ygramul LeMilleMolte = la creatura già descritta, che con i suoi ragni, cavallette, mosche, calabroni, scorpioni dona l’idea dell’immensa varietà di abilità fisiche e mentali che possono collaborare ad una medesima azione teatrale e di come questo gesto (per essere visibile) debba essere formato da un insieme, da un organismo plurimo e compatto, da un gruppo (tutto torna!), ma contemporaneamente di come una realtà teatrale (come quella formata da Ygramul) nasconda l’orrore di tante raccapriccianti figure che stanno nascoste e collaborano (anche il pubblico deve sentire il disagio di questo confronto e ragionare sulle proprie responsabilità).

La tua esperienza viaggia a metà tra il gioco di ruolo e il teatro. Se dovessi illustrare il rapporto che intercorre tra queste due realtà cosa diresti?

Questa domanda è molto difficile, perchè mi porta sempre a ragionare su delle scelte fatte come se fossero state prese da me in modo cosciente e ben motivato.

No, credo che il mio atteggiamento nei confronti del gioco di ruolo sia stato e sia tuttora di semplice necessità. Non credo di aver realmente generato dinamiche innovative o sperimentali nel campo del role playing game, credo piuttosto (come già mi sono espresso per Elish genericamente) di avergli dato maggiore visibilità rispetto ad altri che avevano già compiuto i miei passi. Questo semplicemente perchè molte delle ricerche fatte sui giochi (non solo in Italia) sono state poi filtrate dal mercato (questo fantomatico nemico) che le ha ritradotte in nuovi regolamenti o in diversi sistemi e ambientazioni, pervertendone la potenzialità. Il tutto quindi è passato in sordina rientrando nel binario del comprabile e del vendibile.

Quando io, nel masterizzare una partita, mi trovavo ad inventare una situazione o una nuova dinamica di gioco (che non tradisse le regole ma le esaltasse trovandone una variazione) il gruppo di giocatori rimaneva stupefatto perchè la variante non era stata scritta da nessuna parte, non era prevista! Ma questo atteggiamento non esalta il mio movimento creativo, semplicemente denuncia una forma mentis scavata negli animi dei giocatori dal cattivo gioco, da un’educazione ludica mercificata e di banale antagonismo specialistico.

Nessuno sapeva realmente stupirsi con il proprio essere ludens e quindi consideravano le mie piroette dei gesti rivoluzionari.

In realtà è come se un ballerino si trovasse a vivere in uno stato dove alla gente, per via di un regime fascista e dittatoriale, siano stati imposti solamente movimenti di danza con le braccia. È già scritto nel suo corpo e nelle regole dettate dal movimento anatomico che egli in scena potrebbe saltare, “caprioleggiare”, correre e divertire il pubblico con le gambe ed è assurdo che questo venga scambiato per invenzione e creatività! È segno di disabitudine, di intorpidimento del mondo ludico e di un malessere che andrebbe curato nell’andamento del mercato del gioco.

L’improvvisazione teatrale è uno degli strumenti di utilizzo nel narrare e costruire storie di gioco nei role-playing games, questo non dovrebbe meravigliare nessuno, ma poichè nessun editore ha mai scritto nei manuali “improvvisate”, allora molti si meravigliano che ciò possa avvenire. È estremamente triste. Per fortuna gruppi di studio come Imago o la Federazione Ludica Romana smuovono il campo da simili abberrazioni e riescono a ricucire le domande e le curiosità di vivo interesse nel mondo ludico.

Io credo di essere un discreto narratore di giochi di ruolo e in particolar modo di Elish e utilizzo ogni mezzo che sento utile per raggiungere all’interno del gioco gli obiettivi che mi sono posto, dunque non trovo nulla di stravagante se, desiderando far rabbrividire i giocatori in una partita “orrorifica”, spengo le luci e continuo a giocare al buio, se volendo rendere al meglio la formulazione di un incantesimo alchemico da parte di un mago getto sul tavolino polverine, alambicchi e pozioni, se nel descrivere un luogo sfrutto musiche, diapositive, odori, trucchi.

Sono infiniti i prestiti che si possono chiedere alle molte arti (compreso il teatro) per generare storie e giocarle e questo i bambini nei loro come se lo sanno alla perfezione (non facendo alcuna distinzione specialistica o di genere tra pittura, scultura, letteratura, teatro, gioco, musica).

Credo fermamente che il gioco di ruolo sia molto giovane e che debba compiere ancora molta strada facendo crescere le proprie modalità ludiche ma soprattutto la cultura di gioco in Italia e sono convinto che più sarà forte la spinta di sperimentazione, mia e di molti altri, minore sarà il tempo di attesa dell cambiamento di un tipo di pubblico giocante pronto a mettersi in discussione, a mettersi realmente “in gioco”, a porsi al centro della creazione (del cerchio, come ama dire Vargas) e divenire protagonista dell’evento creativo, senza continuare a subirlo dal mercato che ha ed avrà sempre bisogno di vendersi.

Inoltre, credo che la maturità del gioco di ruolo potrebbe cominciare a suggerire delle interessanti innovazioni alle altre arti, generando nuovi modelli dello scrivere e del recitare, nuove metodologie di narrazione e tecniche di immedesimazione, mentre fino ad oggi le subisce passivamente.

Il mio sguardo rimane molto attento e seguita a ricercare esattamente in questo senso ed il mio scandagliare i territori del gioco attraverso tecniche del teatro serve a snidarne le peculiarità e a formare nuovi metodi e nuovi sistemi, per arricchire come sempre le possibilità d’incontro.

Ogni momento di stupore da parte dei giocatori è per me un buon motivo di analisi e di ragionamento perchè rivela un errore, un blocco, un luogo inatteso e da poco riportato alla luce.

Forse qui potrebbe nidificare un reale senso del gioco di ruolo in termini terapeutici, lì dove il narratore (senza avere reali finalità di cura) seguisse percorsi di gioco innovativi, portando i partecipanti a dialogare tra loro, a ricreare un loro sistema di gioco, ad allearsi e attivarsi profondamente di fronte al disagio (questo termine mi è ormai caro) di una situazione ignota.

La Scienza delle Comunicazioni, soprattutto negli ultimi anni, ci ha mostrato il fiorire continuo di nuovi linguaggi (basti osservare l’eruzione di internet e degli ipertesti), bè, io credo che l’anima del gioco di ruolo, nella sua profonda funzione ludica intravista e sfruttata da Moreno per lo psicodramma, ci rivelerà presto delle sorprese. Sono in attesa e cerco.

Nulla va mai abbandonato, neppure i vecchi meccanismi o le dinamiche errate. Credo che ogni sistema di gioco di role-playing game possa contenere grandi ricchezze, bisogna darsi da fare per formare delle menti attive, devono nascere giocatori che siano ricercatori, che disarticolino ogni gioco di ruolo e lo rinnovino senza attendere dall’esterno stimoli o permessi. Ormai il materiale, anche qui in Italia, è moltissimo (io conosco almeno una cinquantina di giochi di ruolo, ma ne esistono dieci volte tanto), è giunto il momento di non comprare più altro e di  assaltare tutti quei battelli.

Mi sento come ad un porto gonfio di velieri con le stive stracolme di ori e preziosi, migliaia  di “famigliole borghesotte e intellettualoidi” si aggirano sui ponti e compiono viaggi iperbolici per tornare sempre in patria. Mancano dei sacrosanti pirati, che scassinino filnalmente i forzieri, che facciano saltare le cambuse a colpi di cannone e portino alla luce delle attesissime innovazioni, di loro creazione, rivelando la profonda ricchezza del role-playing game e non la superficie laccata dei galeoni.

Dopo pochi anni dalla nascita di internet sono sorti gli hackers a forzare gli ingressi dei sistemi e a scrivere nuovi programmi, virus, modalità di comportamento nei confronti della rete. Ecco che ora il grande sistema ludico, l’immensa rete di giocatori e di mercato ha bisogno esattamente di un qualcosa di speculare ed ancora sono troppo poche le persone che scrivono da sole giochi, che inventano nuovi mondi, che prendono spunto dal mercato e poi si animano per conto loro.

C’è ancora troppa dipendenza (rinvigorita ultimamente dai fatali e infidi Giochi di Carte Collezionabili) e poca illegalità. È anche per questo che Elish è autoprodotto, autodistribuito e non protetto da S.I.A.E.. Ciascuno deve potere attingere liberamente alla cultura di gioco (come era un tempo per i giochi popolari o i racconti e i miti) e modificarla o ritualizzarla a sua misura. Sarebbe ridicolo immaginare un mondo alla Philip Dick ove qualche multinazionale abbia posto un marchio di appartenenza e abbia brevettato a suo nome il mito di Prometeo, un mondo ove chiunque volesse raccontare quel mito o citarlo o ne attingesse come ad un archetipo di racconti dovesse pagare una tassa ai proprietari.

Ebbene in qualche modo questo, nel campo dei giochi di ruolo, è stato fatto, esplicitamente ed implicitamente.

Una casa editrice pubblica un manuale in cui è narrato come giocare nel mondo fantastico di J.R.R. Tolkien e automaticamente affianca a questa pubblicazione un messaggio insano, errato e falso: «non potete giocare a Il Signore degli Anelli se non comprate il nostro manuale. Noi abbiamo scritto come si gioca e se vorrete potrete comprare altri 12 libretti di espansione  che vi faranno giocare ciascuno una situazione del libro!».

È assurdo, ma sta accadendo.

Ci vogliono molte voci, molti narratori che spieghino al giocatore di leggersi il libro originale e inventarsi ciò che desidera, senza nessun obbligo nei confronti del mercato nè dell’autore , poichè (e di questo insegnamento siamo molto debitori al teatro contemporaneo) ciascuno è autorevole almeno quanto William Shakespeare.

Non riesco ancora a valutare con coscienza quello che sto attuando nel praticare Elish contemporaneamente alla mia esperienza con il gruppo Ygramul. So che le due cose sono strettamente legate, ma il gruppo Ygramul e il gruppo che con me porta avanti Elish sino ad oggi non si sono realmente mai incontrati.

In questi ultimi anni, osservando la mia pratica del gioco di ruolo e del teatro in ambiti molto complessi ed estranei sia al teatro classico che al role-playing game (ospedali, carceri, scuole, campi profughi, strade), mi sono reso conto che qualcosa di interessante sta emergendo dalla massa di esperimenti.

Posso solamente aggiungere di aver più volte compreso che molte tecniche del gioco di ruolo, come alcune dinamiche teatrali, possono non avere nessuna direzione terapeutica ma in realtà, con un sapiente utilizzo degli strumenti da parte del master e con un’ampia voglia di stravolgere i preconcetti sul gioco, sono mezzi fortemente terapeutici ed educativi.

Il gioco di ruolo contiene realmente il nucleo della pedagogia moderna e la sua complessità racchiude grandi energie di autoanalisi, socializzazione, critica e collaborazione  terapeutici.

Puoi parlarmi dell’esperienza in Brasile?

Nel novembre del 2002, con il gruppo Ygramul abbiamo svolto un lungo lavoro in Brasile, nel Mato Grosso del Sud, presso le riserve del popolo indigeno Guaranì Kaiowà. Questo viaggio teatrale, fortemente legato alle idee di Terzo Teatro e di “intervento” di Eugenio Barba, ci ha portato a contatto con realtà estremamente diverse e lontane, con culture antiche ed enigmatiche, con problemi disarmanti: un popolo privato della propria terra e dei propri diritti, una mortalità infantile elevatissima per malattie e denutrizione, una violenza fisica e culturale attuata con pestaggi, assassini, stupri, furti e cancellamento di una lingua e di una storia.

Il nostro teatro si trovava di fronte a bambini che si suicidavano per il dolore di un’esistenza privata di senso.

In tutto questo ho scoperto grandi ricchezze e potenzialità del linguaggio teatrale, ho visto i giochi infantili di quel mondo così ancestrale e traumatizzato, un importante elemento mi ha portato a nuovi ragionamenti sul gioco: il vero passaggio e creazione di senso tra teatro e gioco di ruolo, investendo pedagogia e terapia, psicologia e sociologia, passa negli studi dell’antropologia.

Sto cominciando così a colmare le mie spaventose lacune di antropologia e credo che avrò idee più chiare sul gioco quando le parole di qualche studioso antropologo mi costruiranno il giusto filo di Arianna che porta al teatro.

Per ora, in perfetto accordo con il lavoro interessantissimo di Vargas, trovo un ganglo potente e significativo nel concetto di rito, ma credo che ci sia molto altro da disseppellire, sotterrato lì sotto da qualche dannoso dio apollineo.

Vivo, come il mio teatro e il mio modo di giocare, di incontri con situazioni e realtà, dell’istante in cui l’avvicinamento avviene, giunge il disagio delle differenze e del rapporto e debbo inventare tecniche di gioco per ribaltarlo, smascherarlo ed affrontarlo.

Come un giocoliere non può raccontare seriamente il percorso che fanno le sue clavette in aria, il motivo di quel moto, il perchè di alcune scelte, ma si trova organicamente ad affrontare con il corpo le leggi gravitazionali, il ritmo degli oggetti, il vento, la stanchezza, così io non sono un vero saggista, nè un critico o un regista capace di formulare metodologie (forse ora non ne sono interessato).

Mi verrebbe in mente di citare tanti autori letti e praticati nel seguire il concetto di teatro come terapia o di gioco di ruolo come terapia, ma l’unico elemento che mi sento di aggiungere e che credo di aver affermato già per vie traverse e forse poco chiare è il seguente: come Moreno e molti altri, non credo nella vera e propria terapia, non credo che esista una diretta terapia nè un reale stato di sanità o di insanità.

Credo che il gioco e il teatro siano altri mezzi per generare sistemi di riflessione  degli individui su sé stessi, dei gruppi su sé stessi e del linguaggio su sé stesso, ma contemporaneamente credo nella non-specializzazione e nella ricchezza del concetto delle esperienze multiple e ipertestuali, dunque, per intraprendere un percorso terapeutico o pedagogico, qualunque strumento si scelga, non si può escludere la conoscenza e lo sfruttamento di altri miliardi di varchi.

Uno psicologo dovrebbe conoscere anche metodologie teatrali e di gioco, così come un master seguire le strade dell’antropologia e un professore divertirsi a praticare esperimenti di sociologia o di scrittura automatica.

Il sapere va mischiato, confuso e rielaborato personalmente, poichè non esiste un unico metodo, nè il miglior metodo e ciascun operatore dovrebbe crearsi il proprio sistema, personalizzato e ricco. Riguardo a ciò sono fortemente debitore del pensiero, della filosofia (ma assolutamente non della pratica!) di Bruce Lee che forzò i dogmi di dottrine di combattimento antichissimi e  cristallizzati, per suggerire ad ogni singolo “artista marziale” di creare il proprio percorso, attingendo ovunque qualora egli sentisse la necessità di nutrirsi.

Visto che la moda preme verso la maggiore specializzazione e settorializzazione e questo atteggiamento è carente in molti dei nostri studi e spesso anche nelle attività artistiche, si rallenta ogni ricerca e ristagna anche il campo delle strade terapeutiche. Personaggi come Castaneda o Jodorowskij hanno al contrario più volte dimostrato che pittura, letteratura, filosofia, studio dello sciamanesimo, arte dei tarocchi e tecniche corporee possono collaborare al solo scopo di potenziare la comunicazione e sviluppare nuovi strumenti di smascheramento di quelle dinamiche  mentali-sociali-fisiche-politiche che portano ai mille concetti di malattia  moderna.

I prossimi programmi?

Attualmente, nel mese di settembre e nelle prime settimane di ottobre, porterò in alcune città italiane lo spettacolo teatrale Ongossu che racconta il nostro diario di viaggio in Brasile e la storia del popolo indigeno Guaranì Kaiowà. Inoltre, mostreremo le fotografie del nostro viaggio, molto materiale di studio scritto da noi e dall’antropologa Silvia Zaccaria (che ha con noi organizzato la “missione” in Brasile) e un lungometraggio-documentario girato da Ygramul nei Tekhoa (le terre sacre degli  indigeni).

A ottobre riprenderò due brevi laboratori con il Centro di Salute Mentale del IX Municipio a Roma e con il Centro Sociale Intifada.

Durante il mese di ottobre daremo vita ad una rassegna nella quale presenteremo una nuova rivista di teatro, creata da una rete di gruppi di teatro indipendente romani: Ubusettete.

Infine, lavoreremo nei cortili con la rete di Teatri in Movimento e visiteremo diverse scuole, per raccontare la storia degli indigeni Guaranì e ci prepareremo al nuovo viaggio. Dal  novembre del 2003 alla metà di gennaio del 2004, io e il gruppo Ygramul torneremo nel Mato Grosso del Sud e compiremo una nuova “missione” in Amazzonia presso un altro popolo, i Sataremauè.

Con il gruppo Elish  stiamo lavorando alla pubblicazione di un libro di illustrazioni, contenente molti disegni che ci sono stati spediti dai giocatori, invenzioni di moltissimi gruppi italiani e nuove immagini dei nostri disegnatori. Fino ad ottobre cercheremo i fondi per pubblicarlo, partecipando a varie manifestazioni ludiche tra cui l’importante Romics.

A novembre il gruppo Elish sarà presente come sempre a “Lucca Games”, speriamo con questo libro di immagini o altrimenti con nuove partite sperimentali e banchetti informativi. Inoltre, in forte rapporto con la Federazione Ludica Romana, stiamo puntando alla creazione di nuovi eventi di gioco nell’ambito laziale, nuove manifestazioni dal carattere innovativo che, come la riuscitissima “Ludika 1243” di Viterbo (oramai giunta alla sua 4° edizione), potrebbero aiutare a smuovere e modificare l’ambiente del gioco.

Sto lavorando alla pubblicazione del terzo volume di Krakatoa, un’antologia autoprodotta di grafica, racconti e fumetti e ad una nuova pubblicazione che colleghi proprio il teatro e il gioco di ruolo che uscirà al mio ritorno dal Brasile.

  

2. YGRAMUL [259] .

Chi siete?

Vania Castelfranchi – Il gruppo Ygramul è nato nel ’96. In realtà è nato sotto un’altra forma che si collegava al movimento dei “pagliacci senza frontiere” e alla filosofia del teatro della “terapia del riso”; da lì, poi, si è pian piano modellato ed è cambiato. La cosa che sta caratterizzando questo momento di Ygramul - Le MilleMolte e della sua poetica è lo studio sull’esigenza del gesto teatrale, uno studio che cerca di capire non tanto l’esigenza dei testi per un attore, ma l’esigenza proprio di rappresentare qualcosa, qualsiasi cosa e il senso di questa rappresentazione lo si può trovare solo nel luogo in cui esso avviene, sapendo davanti a quale persona avviene e con quali arti, con quale tecnica l’attore la fa avvenire. Quindi è un discorso totalmente scollegato da testi. All’inizio avevamo cominciato a lavorare su testi prettamente patafisici, mentre adesso stiamo viaggiando su qualunque tipo di testualità, teatrale e non teatrale: la cosa importante è andare a toccare delle zone dove in qualche modo ci siano esigenze, esigenze che possono essere verbali e, per questo motivo, lavoriamo con portatori di handicap che hanno una grande difficoltà espressiva, non per dare loro gli strumenti per articolare meglio ma, al contrario, per capire noi quanto quella difficoltà è interessante nell’esigenza di esprimere. Oppure, esigenze di una espressione dei pensieri logica e lineare, in questo senso ci accompagniamo al CSM, il Centro di Salute Mentale, dove il percorso della mente segue ragionamenti che saltano, che divergono dai nostri e, quindi, lì risalta l’esigenza di un pensiero razionale, è come un nervo scoperto, è un muscolo che si vede di più rispetto alla pelle che lo copre. Tutto questo va a toccare in qualche modo anche i luoghi del teatro: per noi molto spesso l’architettura teatrale contemporanea o i luoghi deputati al teatro nascondono l’esigenza di fare teatro, o spesso la addormentano. Per cui andiamo alla ricerca, come molti altri gruppi, di spazi abbandonati o dimenticati dalla città o non utilizzati dal teatro, non tanto come una ricerca all’avanguardia o per lo sfoggio di un certo tipo di cultura underground, più che altro per capire come un attore sia posto davanti a delle esigenze molto diverse, in uno spazio del genere, davanti a dei limiti grossi da superare perché non si trova più su un palco e non ha un’acustica facile.

La messa in discussione del teatro all’italiana come quella del testo teatrale come copione, è riscontrabile in molti gruppi di ricerca. Voi lavorate con un copione? Che grado di improvvisazione c’è nell’evento, nello spettacolo che fate?

Abbiamo lavorato strettamente sul copione facendo tra l’altro un’esperienza attraverso Artaud, un personaggio che mette molto in discussione l’utilizzo classico del copione, però la discussione artudiana che più ci interessa e più si avvicina al nostro modo di cercare l’esigenza dell’atto teatrale è una discussione, nella quale il rigore nell’utilizzo del copione permette di ribaltarlo. Ma si parte sempre da un grande rigore, un rigore sulla cronologia del testo per poter poi spostare i fatti al di fuori di un senso logico temporale o spaziale, un rigore sulle parole, talmente forte che, ad un certo punto, le deforma e le fa diventare diverse. Quindi lavoriamo su questo punto della bilancia: da un lato ci interessa il teatro classico perché, secondo noi, si arrampica cercando di nascondere alcune esigenze che un tempo aveva e che forse adesso ha perso, dall’altro lato chi proprio non ha la possibilità fisica o mentale di avere la normale dizione, il normale corpo, quella che viene considerata la normalità e quindi ha trovato degli strumenti eccezionali, molto artaudiani per certi versi, per delle armi da combattimento, è molto interessante come un down parla o come utilizza un testo, oppure come una persona che ha un problema di schizofrenia trova un modo di riscrivere il testo che gli permette di raccontarlo.

Iniziando un lavoro nuovo, da che cosa partite?

In questo momento non stiamo iniziando lavori nuovi, per cui è molto difficile rispondere.

Quindi ogni volta cominciate in modo diverso?

Sì. Ogni lavoro è un po’ fine a sé stesso, è un’esperienza a sé stante che crea un gradino su cui costruirne un altro. Il lavoro che stiamo costruendo adesso non è un vero e proprio spettacolo ma un viaggio, perché, tra le cose che devono stimolare lo sciame di Ygramul - LeMilleMolte, c’è l’incontro con mondi molto diversi dai nostri, l’incontro con il mondo della mente diversa e del corpo diverso lo abbiamo già iniziato qui in Italia. Adesso vogliamo provare ad incontrare un mondo differente antropologicamente e quindi stiamo progettando un viaggio in Amazzonia che dovrebbe avvenire a novembre e che ci permetterà, speriamo, di incontrare una popolazione indigena per fare una sorta di “baratto” alla Eugenio Barba, quindi giungere lì, osservare la realtà da teatranti e potere, in qualche modo, scambiare materiali della nostra cultura teatrale: danze, canti, racconti, gesti e anche maschere, con la loro che è molto diversa perché nasce da esigenze totalmente diverse dalle nostre e molto più tribali e quindi, in molti casi, anche molto più necessarie: danze legate all’agricoltura, alla fuga, maschere per il nascondimento nel bosco, per la caccia. Sono rituali che hanno un margine molto più stretto con la sopravvivenza.

Vi va, comunque, di raccontarmi un inizio di spettacolo? Per esempio l’inizio dell’Ubu re, che io ho visto.

Chiara Visca – Io credo che tutte le volte siamo partiti dall’esigenza di affrontare un problema che veniva non tanto dal testo, ma dal momento, dalla vita, dal pensiero, per utilizzare, poi, quasi sempre, il testo in funzione di quell’idea, in funzione dell’esigenza di capire quella determinata cosa. Per cui, fin dalla partenza, siamo andati a prendere dei testi che ci dessero questa possibilità. Da lì in poi c’è sempre stata una fase molto lunga di laboratorio, sul testo e su questo problema, per poi arrivare alla messa in scena che poi raramente è stata la messa in scena del testo ma, più che altro, la messa in scena dell’esperienza fatta. Per questo, in qualche caso, risultava poco leggibile per chi non l’aveva affrontata o seguita nel suo insieme. La messa in scena ha sempre voluto essere la testimonianza della crescita del gruppo in quel momento rispetto a quel testo e a quel tipo di teatro, perché non abbiamo mai decontestualizzato troppo il testo dal tipo di teatro da cui veniva. Una testimonianza, però, legata anche a quel problema, quindi all’ottica con cui noi avevamo letto un determinato testo. Nell’Ubu c’era un discorso sulla condizione della donna, un discorso che forse non è intelligibile ad una prima lettura, ma era comunque l’aspetto che ci interessava di più. Quindi, sono stati letti altri testi, verificate altre cose, fatte delle esperienze rispetto a quel problema, sia dalle donne del gruppo come donne, sia dagli uomini del gruppo di fronte al problema della donna: ne veniva fuori quell’attrito di rispetto riguardo al problema. Rispetto all’Ubu, la comunicazione patafisica ci era funzionale, rispetto a Le Città Invisibili, in cui c’era un discorso molto più matematico, molto più strutturato, la comunicazione è andata in un altro modo, rispetto a I Cenci era ancora ad un altro livello, con un percorso molto più artudiano. Anche per il Don Chisciotte, il nostro viaggio al Festival di Avignone era il viaggio di Don Chisciotte, il nostro viaggio all’interno di quel percorso. Credo che, comunque, siamo partiti sempre da un’esigenza nostra, ad esempio “partire”, prendendo un testo che ce lo consentisse, per poi andare a vedere cosa diavolo succedeva alla fine.

Questa attenzione alla partenza mi sembra interessante; anche perché capisco bene che ci sono delle cose che accadono a catena una volta che si è partiti. Ma effettivamente come si parte? Nel primo incontro che cosa succede? Intendo quell’incontro in cui, per la prima volta, è venuto in mente di fare uno spettacolo, o una performance su Don Chisciotte o su Ubu.

Vania Castelfranchi – C’è una leggenda che gira attorno a Peter Brook, chissà se è vera o falsa. Durante il primo incontro per un lavoro su Cechov, organizzò una cena russa per i suoi attori. Era una sorta di battesimo, secondo me. Io credo che il battesimo di Ygramul sia un po’ strano. Di solito, il primo incontro ha due facce molto potenti: da una parte lo stupore di trovarsi davanti ad una grande novità, che può essere un testo nuovo o una nuova idea, dall’altra, la paura, i timori, i dubbi e rispetto al discorso del viaggio sono queste le prime bolle che salgono alla superficie, molto prima di “come sarà lo spettacolo”, o di “come lo faremo”. Nascono dubbi, dunque, ma il dubbio è uno dei grandi motori di azione per produrre prima un laboratorio e poi uno spettacolo. È un modo per vincersi, per scavalcarsi non in maniera umana ma teatrale. Questa è una caratteristica che riguarda anche la scenografia del progetto Ygramul – LeMilleMolte. Uno degli elementi presente in tutti gli spettacoli ma anche nelle performances, nelle improvvisazioni è un certo disagio, una certa difficoltà anche nella struttura scenografica. Ygramul parte sempre dall’ipotesi che una delle energie primarie sia quella di mettere il corpo, la voce in delle situazioni di costrizione. E allora in Ubu avevamo una grande sfera traballante dentro cui tutti erano stretti, accorpati e sopra la quale qualche attore saliva, ma su un palchetto minuscolo, ridicolo. Ne Le città Invisibili c’era una pedana molto inclinata, faticosa da gestire, sotto la quale erano infilati tutti gli attori. Ne I Cenci c’era una scenografia che partiva con una struttura da teatro classico che, durante lo spettacolo, si distruggeva: cadevano delle pareti, si spostavano delle stanze, si inclinavano. Il Don Chisciotte era in sé una grande prova di forza: si trattava ogni giorno di portare in strada non una scenografia leggera ma una bicicletta con vari strumenti, con un’armatura, delle spade di ferro, un tipo d’arte di strada molto complessa. Il primo incontro è una specie di punto di partenza di queste paure ed è buono perché le paure vengono condensate insieme alla voglia di fare. È come far vedere una pistola ad un bambino: c’è la grande voglia di prenderla in mano e giocarci e smontarla e vedere come funziona e sentire quanto è forte il botto che può fare, sapendo che è una pistola però, con tutti i tabù, le remore, le preoccupazioni, le cose dette dai genitori, tutto quello che può gravare su quell’oggetto.

Come lavorate la parte scenografica?

Fiamma Mandich – La peculiarità del nostro lavoro sta anche nel fatto che, in una logica “laboratoriale”, i progetti vengano elaborati dall’intero gruppo. Quindi, esistono delle continue contaminazioni tra il lavoro “attorale” e quello di progettazione dello spazio. Il lavoro dello scenografo subisce, in questo caso, le influenze delle idee degli attori, delle loro invenzioni, prende quindi spunto non soltanto dal testo ma dalle elaborazioni che ne vengono poi fatte e dai vari passaggi logici che portano in altre zone di pensiero e di comunicazione che non è più quella gestuale, ma della costruzione di uno spazio che serva a sottolineare e ad aiutare la comunicazione gestuale e quella delle altre forme espressive dell’attore in scena.

Che rapporto avete con gli oggetti di scena? Che tipo di importanza hanno durante l’evento?

Siamo convinti che gli oggetti di scena debbano essere essenziali. Per dare loro il peso, per fare in modo che sprigionino l’energia che hanno o che gli si è costruita intorno attraverso il lavoro, devono appunto essere fondamentali. Non esistono decorazioni, non esistono orpelli. Il lavoro intorno all’oggetto sicuramente tende a decontestualizzarlo e a fare in modo che quell’oggetto parli altre lingue, differenti da quelle che siamo abituati a tradurre dalla sua esistenza. Lo stesso per quanto riguarda la creazione dello spazio, dei volumi, delle zone praticabili, delle uscite: c’è una sorta di grammatica, un tentativo di andare a costruire un geroglifico, cioè un’immagine che evochi con le sue presenze di volumi, ombre e vuoti un impatto emozionale che aiuti e che serva da pentagramma a quello che gli attori stanno costruendo, materializzando sulla scena.

Ma è un oggetto a servizio dell’attore? Oppure è un oggetto che recita con l’attore?

Prima abbiamo parlato della fatica. A volte l’oggetto sembra sfidare l’attore a superare sia il normale rapporto che stabilirebbe con esso, ma questo, credo, è un lavoro che ogni attore fa naturalmente nella fase di studio sia per la sua importanza, per la sua essenzialità. L’oggetto non è servo dell’attore perché diventa faticoso da gestire, perché tira fuori la sua verità e quindi costringe l’attore a comprenderla e a trovare un percorso intorno a questa. È  faticoso, ma il rapporto che si crea è un rapporto forte.

Vania Castelfranchi – Il rapporto con gli oggetti è impostato anche sulla grossa distinzione vero/falso: nel caso in cui alcuni oggetti siano falsi, lo devono dimostrare in scena, devono esserlo spudoratamente, dipinti, fatti in cartapesta, devono mostrare la loro falsità. Gli oggetti parlano con l’attore durante la scena, in un duetto che spesso si avvicina alla performance. Se l’attore combatte con una spada finta, il duello sarà marcatamente finto, perché l’attore non correrà nessun pericolo e non avrà nessuna paura di colpire. Nel momento in cui si decide che questo duello debba avere un marchio di realtà, l’oggetto obbligatoriamente deve essere vero: questo porta ad un tipo di tensione molto forte anche a causa degli accidenti, degli imprevisti che, del resto, possono anche aiutare lo spettacolo, il film, l’evento. Anche il più grande funambolo non può avere con la corda un rapporto di quotidianità e di tranquillità, perché quello con cui ha a che fare è, pur sempre, un oggetto pericoloso che contiene un limite. Oltre quel limite deve essere a rischio la sua vita, il suo spirito e l’energia dello spettacolo.

Stiamo parlando di uno spazio non tradizionale, di una preparazione non tradizionale, di un copione non tradizionale. In questo contesto come si pone una formazione accademica?

Chiara Visca – Credo che in questo gruppo viviamo una logica quasi “da discarica”, un po’ per l’utilizzo che facciamo dei materiali, un po’ per la politica dell’accumulo e del “non buttare via niente”. È una logica che va contro la logica accademica che la discarica la nasconde per benino. Qui, invece,  la “sofferenza” dell’attore, i problemi durante il percorso, le esigenze mancate o esaudite, sono lasciate in luce, alla fine, intendo nella performance, o nell’evento, o nello spettacolo. I materiali che usiamo sono duri, da discarica, non sono materiali pre-confezionati, sia perché crescono con noi (il chiodo che sta fuori lo sbattiamo dentro piano piano, ma iniziamo a lavorare con tavole con i chiodi esposti), sia proprio per la politica del “non buttare via niente”, secondo cui un’esperienza ti dà sempre qualcosa, sia nel bene che nel male. E né il bene, né il male deve essere buttato via, perché comunque fa strada. Sia le paure iniziali che quelle finali fanno parte integrante di quanto stiamo dicendo e da lì nasce la vera esigenza di fare o di non fare. Ma, per principio, nonché per esigenza, lavoriamo da sempre sia con attori che vengono da una formazione accademia, sia con attori che vengono da tutt’altra esperienza. Spesso questo attrito, da discarica (nel senso che siamo finiti buttati nello stesso posto) è la chiave di quello che facciamo.

Vania Castelfranchi – È molto importante per noi l’idea di Grotowskij secondo cui mai e poi mai un attore deve essere un turista, mai e poi mai deve selezionare le cose che trova, o scegliere cosa vedere e cosa non vedere. Un attore non si può permettere il lusso di essere un turista; se lo è, non sta facendo teatro ma un menù per turisti, una selezione di ricette da cucinare ad un prezzo economico. In realtà deve visitare tutto quello che si trova in una zona, tutto quello che, in quel momento, la sua energia gli permette di visitare. Deve essere il più possibile spalancato a tutte le esperienze, poi è chiaro che alcune di queste filtreranno, altre no, alcune fioriranno, si svilupperanno, mentre altre moriranno. Ma è importante che il suo sguardo sia aperto molto più di quello dell’autore del testo, uno sguardo gigantesco, uno sguardo da creatore di un impero. Non vado a Roma per vedere il Colosseo ma per edificarla, per diventare l’architetto dell’intera città. Con questo spirito ho la possibilità di capire il Colosseo, altrimenti la mia è una visita superficiale. Come diceva Grotowskij, ogni spettacolo non diventa altro che scattare due polaroid.

Massimo Cusato – Finita l’Accademia, io, Vania e Fiamma siamo partiti per Avignone e ci siamo fermati in quel di S.Gimignano, dove c’è stato il nostro primo contatto con la strada, con la piazza. La vera scoperta di quell’esperienza è stato il fatto che, per me, in quelle due ore, un giornale è diventato tutto. Ogni volta, incontrando le persone della piazza, i turisti che si fermavano, quel giornale doveva diventare qualcosa d’altro. E questo in Accademia non te lo insegnano.

Vania Castelfranchi – Non è sbagliato che in Accademia non insegnino certe cose. Il problema è che non le dicono. Questo è l’errore fondamentale di una scuola. Il timore che c’è di parlare di alcune cose o di affrontarle, è legato anche al pericolo che queste comportano: parlare di Artaud fa scoprire una faccia del teatro molto pericolosa da un certo punto di vista, molto difficile da affrontare per un teatrante. È quindi normale che all’interno di una scuola certe fasi non vengano affrontate; è grave, però, che non venga detto, alle classi, agli attori, ai registi che quelle fasi, in quel momento, è meglio non affrontarle perché sono pericolose. Nel momento in cui gli attori iniziano ad avere delle esperienze reali o formano un gruppo, come è capitato per Ygramul, ti accorgi che è molto interessante scoprire questi luoghi della pericolosità, che possono andare dalle cose più banali e semplici, come la tecnica della giocoleria o del mangiafuoco, che hanno dei rischi scemi, tecnici, alle cose più complesse, come un incontro con Artaud o con Grotowskij o con i Living. La mancanza delle scuole come l’Accademia sta soltanto nel fatto di voler saltare, oscurare alcuni passaggi, senza dirlo. Sarebbe molto positivo saltare, dicendolo. Sarebbe anche giusto: una scuola non può certo affrontare tutte le esperienze dei maestri del teatro, tutte le tecniche, tutte le arti teatrali, sarebbe impossibile. Ciò che resta assurdo è questo salto silenzioso.

Detto così sembra quasi un atto politico, il vostro.

Sicuramente la nostra è una filosofia politica. La logica del riciclo, delle discariche - cittadine e psicologiche - è marchiata da un segno politico. E non pensiamo che il teatro politico debba fare testi politici. Tutte le strade sono aperte: quelle degli incontri, con altri gruppi, altre esperienze, altre culture, così come quelle tracciate da altri tipi di teatro, da altri testi. Però è molto importante che alla base ci sia una chiarezza di questo senso dell’utilizzo del mezzo teatrale, perché, comunque, è un’arma e il suo uso va pensato, valutato, è una mazzaferrata, è una balestra, non si può pensare di sparare colpi in aria senza ferire nessuno. Non credo che esista un “teatro leggero” semplice e banale: qualunque tipo di teatro è responsabile di una forma di danno, di una forma di pensiero, di ideale, di politica. Il regista che gira spot televisivi non può dire “Questa non è regia perché io poi faccio film seri”. No. Quella è una forma di comunicazione, è regia, fotografia, linguaggio e quindi anche messaggio.

Chi è Ygramul?

Massimo CusatoYgramul è uno sciame di insetti. E siamo noi questi insetti. Il morso di questo mostro permette di viaggiare, di raggiungere vari posti. Ygramul è sempre in movimento. Forse quello che muove Ygramul è la stessa impazienza generosa che muove Asterione. Non riusciamo a star fermi. Da qui l’imprevdibilità degli incontri, delle esperienze. Possono esserci altri insetti che si uniscono a noi per far parte di questo mostro e poi volare via. Il nucleo c’è, ma il nucleo è sempre in movimento.

Vania Castelfranchi – Questa è la testa di Ygramul. Dietro abbiamo un “codazzo” di 40 persone che comunque hanno lavorato con noi e che, comunque, stanno nel nostro passato (e quindi nel nostro presente). Il gruppo Ygramul, quindi, è molto grande: ci sono insetti più luminosi che portano avanti l’esperienza, ma gli altri, forse, poi torneranno e li scavalcheranno. Non sapremo mai precisamente quanti siamo, non sappiamo neanche ad ogni riunione quanti saremo. Questo è l’aspetto più interessante e più anarchico del gruppo, così non crediamo nella necessità di doverci costituire come compagnia, non abbiamo un atto costitutivo, non siamo un’associazione culturale. Il gruppo non esiste sulla carta, ma esistono le sue apparizioni, esistono i posti che lo sciame ha visitato, quindi c’è. Esistiamo perché agiamo. La nostra è una logica “di passaggio”. A volte, come cavallette, deprediamo. Non abbiamo un referente fisso, né un luogo di collaborazione fissa. Per molto tempo abbiamo lavorato all’interno delle strutture del Villaggio Globale, poi ci siamo spostati ed ora vagabondiamo in cerca di un nuovo spazio, un nostro teatro che ci contenga per un po’ di anni.

Il viaggio di contaminazione, il viaggio verso la varietà delle esperienze culturali, artistiche, umane, quanto è lontano dal viaggio della compagnia di giro, dal viaggio della tournè

Parto dalla somiglianza. La compagnia di giro viene ospitata da luoghi, da città e, molto raramente, da culture diverse, avendo per abito uno spettacolo, un testo, un’idea. Anche noi, viaggiando, indossiamo un abito. Ma, realmente, è un abito che viene dipinto e cucito dalle persone che si incontrano. Un esempio per tutti è il nostro lavoro su Don Chisciotte: i è trattato di un laboratorio in cui sperimentavamo un approccio al testo e ai personaggi abbastanza classico. Questo bagaglio di pensieri e di idee maturate però, una notte lo abbiamo portato alla Stazione Tiburtina e abbiamo affrontato alcune dinamiche del Don Chisciotte con i barboni. Questo ha permesso di trovare, per alcuni personaggi, delle chiavi di lettura molto innovative. Uno di loro ci spiegava che la logica da cui fugge Don Chisciotte è la stessa nella quale lui, invece, è intrappolato. Questo ragazzo parlava di una specie di energia attorno alla Stazione Tiburtina che non gli permette di andarsene o che, comunque, lo costringe sempre a tornare. È un incantesimo che non riesce a spezzare. Anche Don Chisciotte ne è vittima perché, pur viaggiando, non riesce mai a staccarsi dal punto di partenza ed è sempre lì che torna. Ecco che allora il testo, via via, si costruisce con questo avvenimento e con tutte le cose che accadono e uno spettacolo allora può cambiare da un giorno all’altro.

Un’altra differenza riguarda il punto di arrivo. La compagnia tradizionale è protratta unicamente verso lo spettacolo, verso il debutto. Per noi non è così. Per noi è possibile che lo spettacolo non avvenga, ad esempio; è possibile l’esperienza fine a sé stessa del laboratorio, degli incontri. Il viaggio in Amazzonia possiamo pianificarlo bene, ma in ogni caso non possiamo prevedere cosa accadrà.

C’è un teatro cui vi ispirate? O che amate particolarmente?

Siamo assolutamente lontani dallo stile dei Raffaello Sanzio, ma siamo molto vogliosi di quel tipo di ricerca, una ricerca profonda, seria, puntuale. Per altri versi, mi sembra che Peter Brook abbia abbracciato un concetto di viaggio simile al nostro, perché, pur non avendo compiuto esperienze di baratto, è riuscito a fare ancor meglio: è riuscito a scoprire e a raccogliere in sé tantissime lingue del teatro. Ecco perché non sai mai quale sarà lo stile del suo prossimo spettacolo.

Volete raccontarmi un aneddoto di uno dei vostri viaggi?

Massimo Cusato – Uno su tutti, dal lavoro per I Cenci. In attinenza con quello che diceva Vania prima, sul fatto, cioè, che noi possiamo anche fare un lavoro e poi non andare in scena. Però, quella volta ci siamo un po’ arrabbiati. L’andare in scena, comunque, resta un momento del laboratorio. Per il laboratorio de I Cenci eravamo partiti in quindici. In scena siamo rimasti in cinque e pensa che tre persone se ne sono andate a quattro giorni dall’andata in scena. Noi ci siamo guardati e ci siamo detti “va bene, si va lo stesso”. E allora abbiamo lavorato 24 ore su 24 per portare tutto quello che era successo nel laboratorio, anche la disperazione, la rabbia. È stata una prova importante per il gruppo. Un’altra dimostrazione che Ygramul è in fibrillazione e non può stare fermo.

Vania Castelfranchi – Una cosa analoga è successa nell’Ubu. Noi abbiamo fatto una prima serata nel cortile del Villaggio Globale su una sfera costruita da due scenografi; la sera dopo è venuto il diluvio universale e la sfera, rimasta sotto la pioggia, si è fondamentalmente sciolta. Allora abbiamo deciso, come impuntatura, che in ognuna delle serate successive lo spettacolo sarebbe stato fatto in un punto diverso e, soprattutto, in un modo diverso. La seconda sera lo abbiamo fatto in un corridoio. La scena sferica è diventata orizzontale, sviluppata lungo tre stanze. Un’altra sera ci siamo spostati al centro di una grande sala, poi, al Rialto, il primo giorno abbiamo montato tutta la struttura su un lato del terrazzo e il giorno successivo, d’accordo con gli scenografi, abbiamo cambiato lato, ricostruendo di fatto la scena. C’è una grande vitalità, una gran voglia di modificare l’evento teatrale. Mettendosi molto in gioco, perché ogni volta cambia tutto: le luci, i colori, l’acustica.

Massimo Cusato – Per fortuna andiamo in scena per cinque giorni. Se dovessimo fare una tournè gli scenografi diventerebbero pazzi.

Vania Castelfranchi – Vorrei aggiungere una cosa.

Prego.

Una caratteristica essenziale del gruppo Ygramul è che è composto da chiunque. Individui che non hanno nessuna esperienza di teatro, di qualunque età, con teatranti dei più diversi generi teatrali e poi musicisti, scenografi, scultori, disegnatori. Lo sciame è composto da insetti diversissimi tra loro. Una delle logiche essenziali, fin dalla nascita, è quella secondo cui, il gruppo Ygramul, anche quando non lavora ad uno spettacolo o ad un laboratorio, cerca di scambiarsi materiali.

Quindi ogni persona che incontrate è interessante? Se mio cugino vuole essere uno degli insetti, voi lo accogliete?

All’inizio, per una sorta di deformazione accademica, pensavo che non tutti fossero interessanti e che quindi ci volesse una selezione. Invece lavorando nelle scuole, con il CSM, mi ha fatto capire che tutti sono assolutamente interessantissimi, perché chiunque può avere uno sguardo su un’opera, su una tecnica, estremamente innovativo. Anche tecniche molto complesse possono essere affrontate da un giornalaio e riscoperte in un modo che non ti saresti mai aspettato. Il tuo modo di ragionare, da teatrante, è preconcetto. Noi dobbiamo imparare ad osservare le minuzie, ecco perché Ygramul è una massa enorme di piccoli occhi.

Vorrei che mi diceste qualcosa riguardo al vostro rapporto con gli spettatori.

Il pubblico che ci segue ha capito che non basta vederci una volta, perché la seconda è troppo diversa. Mi viene in mente Gogol, che diceva che i suoi racconti si vanno modificando, si riscrivono, cambiano. Penso che il nostro pubblico non si deve abituare allo spettacolo. Certo, in alcuni spettacoli il laboratorio oscurava il testo e questo è stato uno dei difetti nei primi lavori, ma il pubblico di Ygramul si è sempre trovato a che fare con molto materiale. Abbiamo preparato mostre, video, programmi di sala piuttosto elaborati, non succederà mai che un lavoro del gruppo sia poco raccontato al pubblico. Per il Don Chisciotte abbiamo realizzato dei piccoli libri che il pubblico poteva prendere liberamente. Questo senso del viaggio, poi, ci permette di far capire, quasi sempre, che gli spettatori stessi sono la tappa del viaggio. Detto questo, lo sciame Ygramul ci tiene molto ad avere una chiarezza politica nei confronti del pubblico, per questo ha dei grandissimi dubbi rispetto al prezzo d’ingresso, perché il denaro rientra con gran fatica nelle logiche di Ygramul. È difficile pensare di vendere un nostro spettacolo.

Sì, va bene. Ma chi paga quello che fate? Chi è il vostro produttore?

Non esiste un produttore. Quando abbiamo fatto pagare l’ingresso agli spettacoli ci siamo un po’ rifatti delle spese. In realtà, abbiamo un fido bancario con una banca molto paziente. Il problema reale è che, avendo nel nostro gruppo anche degli scenografi, dobbiamo sostenere la spesa continua di un magazzino scenografico molto vasto, pieno di roba di ogni genere. Adesso stiamo cercando di superare questo problema economico creando laboratori. Tra l’altro, ne stiamo attivando uno sulle giullarate medievali e uno su psicodramma e gioco di ruolo. A tutto questo si aggiungono le serate di Schizzi Impazziti, che sono un ramo di Ygramul, e altre serate da camera. E poi ci sono i contratti con le scuole e con il CSM. Con queste entrate finanzieremo il viaggio in Brasile.

Bene. Mi sembra sufficiente.

Si può fare un annuncio?

Certo. Quello che volete.

Lo sciame di Ygramul - LeMilleMolte cerca assolutamente e disperatamente persone che possano lavorare con noi sulle forme di handicap, qualunque esse siano, perché all’interno del gruppo, in questo momento, non c’è nessuno che possieda gli strumenti di un logopedista, di uno psicologo, di uno psicoterapeuta. Abbiamo bisogno di materiali.

I presenti all'intervista erano:

VANIA CASTELFRANCHI (regista)

MASSIMO CUSATO (attore)

CHIARA VISCA (attrice)

FIAMMETTA MANDICH  (scenografa)

SIMONE DI PASCASIO (attore, non ha parlato!)

 

In questo momento sono parte dello sciame anche:

GLORIA IMPARATO (scrittrice)

AIDA TALLIENTE (attrice)

ALFREDO CITTADINI (scenografo)

 

Collaboratori:

JACOPO MANDICH (scultore)

FRANCESCA D'ELIA (fotografa)

LUCIO VILLANI (musicista)

  

i X tesiAppendice 1 & 2
Teatro E Gioco: tra teoria e prassi teatrale   A1.1 | A1.2 | A1.3 & A2.1 | A2.2

N O T E - Appendici
[253] M. SURIANELLO, Passeggiando in solitudine nel silenzio e nell’oscurità, intervista a Enrique Vargas, in  www.tuttoteatro.com, anno I, n. 35, 14 dicembre 2002.
[254] F. GASPARINI, Il teatro è un alambicco, intervista a Enrique Vargas, in «Artò», anno 2000, n. 6, pp. 11-18.
[255] Intervista a Enrique Vargas, a cura di M. Tomasi, 24 agosto 2003.
[256] Intervista a Vania Castelfranchi, a cura di M. Tomasi, 28 agosto 2003.
[257] Mitico mostro marino delle coste scandinave.
[258] I fuoriscena, ndr.
[259] Intervista al gruppo Ygramul, a cura di M. Andreoli, in www.gordo.it, 22 maggio 2002.

Teatro E Gioco: tra teoria e prassi teatrale  Intro | Cap. I | Cap. II | Cap. III | App. | Biblio

i X tesi dreddy.it